La democrazia del telecomando

In by Simone

L’intrattenimento è cultura? Chi lo stabilisce? Secondo quali criteri? Il dibattito che si è sviluppato sulle principali testate cinesi a seguito delle nuove direttive della Sarft, in vigore dal primo gennaio, che chiedono alle tv cinesi meno intrattenimento e più ideologia. (In collaborazione con AGICHINA24)

Tutti ne parlano, pochi, per ora, ne scrivono. Non si leggono molti commenti sulla stampa cinese legati alla «wenhua tizhi gaige», la riforma del “sistema” culturale protagonista della recente riunione plenaria del comitato centrale del partito. Il documento prodotto e pubblicato dai “cervelli” riuniti a Pechino si intitola «Approfondire la riforma del sistema culturale, promuovere il grande sviluppo e la prosperità della cultura socialista» e, in retrospettiva, permette di dare un senso strategico a iniziative che l’hanno preceduto, come quella di “ripulire” le tv satellitari provinciali dai programmi di intrattenimento, fissando un tetto massimo al numero di trasmissioni di questo tipo per ciascun canale a partire dal 2012.

Proprio di questo nuovo regolamento, emesso dall’Amministrazione statale per la radio, i film e la televisione (Sarft), scrive sul sito della rivista Caijing il 4 novembre l’editorialista Deng Yuwen, vice direttore del giornale della scuola del Pcc Xuexi Shi Bao. Rivelando una posizione che, pur provenendo dalle file del partito, è nettamente critica nei confronti dell’iniziativa.

«Non guardo spesso la tv, e soprattutto non guardo i programmi di intrattenimento. Quando mi sono forzato di guardare il programma “Feichang wurao” [un reality show per incontrare l’anima gemella] della tv satellitare del Jiangsu, dopo nemmeno due minuti ho cambiato canale. Non lo dico per fare lo snob, ma per affermare che ognuno ha i suoi gusti e che non si possono obbligare le persone a guardare qualcosa che a loro non piace. Purtroppo è proprio questo quello che il “bando” ai programmi di intrattenimento deciso dalla Sarft sta tentando di fare».

Deng Yuwen rileva che le reazioni dell’opinione pubblica e dei giornalisti sulla manovra sono state per lo più negative e spiega perché neanche a lui il provvedimento è piaciuto. «A me questi programmi non interessano, ma nonostante ciò non approvo l’idea di limitarli o eliminarli. Chi ha il diritto di decidere che cosa una persona deve o non deve guardare in tv? Si dice che il motivo di questa misura sta nel fatto che molti programmi di intrattenimento sono volgari e sono la replica l’uno dell’altro. Ma chi stabilisce se un programma è volgare? Il governo, gli spettatori o un organismo apposito? In assenza di un metro di valutazione condiviso, non è assurdo che il potere di decidere cosa devono fare le tv e cosa devono guardare gli spettatori sia affidato al governo, a un numero ristretto di persone?».

Ecco perché per Deng Yuwen il governo dovrebbe togliere le mani dal piccolo schermo. «Se una trasmissione non va a toccare la morale sociale e se non viola le leggi, bisogna intervenire con grandissima cautela nell’autonomia della tv.  Perché ingerenze di questo tipo significherebbero esercitare il controllo non solo sulla televisione, ma anche sul potere di scelta degli spettatori. Un effetto positivo della competizione commerciale tra le tv è che ha dato ai consumatori il potere di scegliere, cioè di guardare quello che preferisce. Anche se quello che decido di guardare è volgare, si tratta di una mia scelta: il governo che cosa c’entra?».

È la democrazia del telecomando, dice insomma Deng, e guai a chi la tocca: «L’esecutivo dovrebbe fare sua questa idea, che la scelta degli spettatori è legata alla loro libertà individuale, cioè che è un diritto fondamentale. Di fronte a un diritto individuale, e fino a che questo diritto non va contro la legge, il governo deve tenersi a distanza e non interferire».

E se da una parte, ammette l’autore, la tv «ha in sé una funzione educativa»  e il governo «dovrebbe esercitare un’azione di guida della società», dall’altra parte, per «diffondere nella società programmi di alto livello il governo dovrebbe investire nella realizzazione di trasmissioni di intrattenimento di valore, così che possano competere con quelle ritenute più volgari. Se nel mercato televisivo circolassero più programmi di intrattenimento di qualità, gli spettatori non li guarderebbero?».

Il nuovo regolamento della Sarft obbliga inoltre le tv satellitari a inserire almeno due ore di  informazione tra la prima e la seconda serata, ma secondo Deng anche in questo caso più della regola potrebbe il mercato: «Oggi i programmi di informazione non attirano gli spettatori perché devono obbedire a troppe norme, diventando finti e impregnati di retorica». La mancanza di credibilità «ha allontanato il pubblico spingendolo verso i programmi di intrattenimento che, anche se di basso livello, almeno sono vivaci. La Sarft – è l’appello di Deng – se non ripensa alle ragioni per cui il pubblico fugge dall’informazione, ma si limita a vietare i programmi di intrattenimento, scambia la causa con l’effetto. Per creare un ambiente sano per l’opinione pubblica bisogna ridurre, non rafforzare, le interferenze e il controllo del governo sulla tv e sulle notizie».

Sul suo blog, prontamente censurato e ora inaccessibile, il 2 novembre lo scrittore-celebrità Han Han non ha usato mezzi termini per condannare sia della manovra sulla tv che la riforma del “sistema” culturale. «Per molto tempo ho dovuto cedere alla durezza della censura. Ma da quando ho imparato a “elevare il mio gusto” – ironizza il blogger – sono stato fortunatamente in grado di pubblicare libri. E poiché alcuni libri hanno venduto bene, in alcuni casi ho avuto la possibilità di spingere l’editore ad abbassare un po’ il livello di gusto».

Nonostante ciò, la sua attività, come quella degli altri scrittori cinesi, deve sempre fare i conti con le autorità: «Ogni volta che scrivo devo passare attraverso un processo di autocensura. Non so come possa diventare un paese con una grande cultura quello in cui gli scrittori tremano quando prendono in mano la penna; o quello in cui, non potendo mettere in Google i nomi dei membri del comitato permanente del Politburo, non puoi nemmeno fare una ricerca sul poeta Li Bai. Non so dove questa presunta riforma del sistema culturale andrà a parare. Spero soltanto che il signor Han Zheng [sindaco di Shanghai, che ha il suo stesso cognome] non faccia carriera. Altrimenti finirà che non potrò più cercare su Google nemmeno me stesso».

Preferisce invece mantenersi in equilibro su una apparente neutralità il commentatore del Nanfang Zhoumo, Xu Ben, che il 28 ottobre firma un editoriale sulla riforma del “sistema” culturale con la cautela di chi sa di  trovarsi su un terreno pericoloso.  «La cultura è diventata un aspetto importante dello sviluppo del nostro paese e naturalmente è una cosa positiva che si porti avanti una riforma del sistema culturale che punti ad approfondire, promuovere e diffondere la cultura». Ci si aspetterebbe un «ma», a questo punto, che però non arriva, sostituito da considerazioni che puntano a dimostrare come la cultura in Cina già esista e come, forse, molti preferirebbero evitare nuove mobilitazioni in nome della cultura.

«Si dice che oggi i cinesi pensano solo ai benefici tangibili e non comprano libri (ad eccezione di quelli di cucina, di finanza e per la preparazione agli esami), non guardano l’opera (ad eccezione delle soap opera in tv), non ascoltano la musica (ad eccezione delle “canzoni rosse”), non apprezzano la danza (ad eccezione delle danze dei balli di gruppo organizzati in parchi e aree pubbliche per tenersi in forma). In una parola – continua Xu Ben – si afferma che i cinesi non sono interessati alla cultura. Io non sono molto d’accordo con questa affermazione: le eccezioni appena citate sono infatti anch’esse tutte forme di cultura». La realtà quindi, precisa l’autore, «non è che la Cina non ha una cultura, ma che quella che si vede è solo “cultura di massa”».

Il carattere distintivo della cultura di massa rispetto alla cultura “alta” «è il suo uso: di intrattenimento, di passatempo, di relax dopo il lavoro, sarebbe a dire di “elevamento dello spirito”. Comunque sia, se guardiamo alla Cina di oggi, l’approfondimento, la promozione e la diffusione della cultura di massa sono obiettivi già raggiunti».

Inutile allora, sembra voler dire Xu Ben, mobilitare il paese. «Dopo l’esperienza della Rivoluzione culturale e della “febbre culturale” degli anni Ottanta, oggi i cinesi hanno un atteggiamento moderato e cauto nei confronti della cultura. Né sembra ci siano segnali di una esplosione appassionata [nei confronti di una riforma del sistema culturale]».

Se si pensa agli eccessi “passionali” compiuti dalle guardie rosse negli anni Sessanta, si comprende il senso della frase finale del commento di Xu Ben: «Riflettere a freddo sul perché promuovere la cultura è una manifestazione di maturità civile». Niente campagne o mobilitazioni – invoca dunque l’editorialista -, ma calma e moderazione.