Coming Home, l’ultima fatica di Zhang Yimou, ripercorre gli anni della Rivoluzione culturale. Un lavoro che non ha mancato di sollevare dubbi, polemiche, accese prese di posizione, ma tutto questo per un film è sempre buona cosa. Tuttavia, perché tornare oggi a raccontare la Rivoluzione Culturale attraverso una storia di amnesia?
A scuola abbiamo imparato che nel be or not to be del principe di Danimarca può echeggiare il vuoto. Il dubbio di Amleto spalanca una cavità improvvisa, nella quale precipitare il suono di una voce, di una memoria, e riascoltarne l’eco grottesca. In tempi moderni, all’artista è toccato spesso collocarsi al centro di una simile opposizione, essere o non essere, assecondare o non assecondare la propria funzione, scegliere o non scegliere quale ruolo avere nel corso delle cose.
In tanti si sono affaticati a trasformare il dubbio amletico in luogo comune, ma non tutto può essere corrotto, e nel nostro mondo la scelta è un evento inesorabile. Amleto e Cina contemporanea, bizzarra sovrapposizione. Rimembranze di cinema mi riportano al già lontanissimo 2006, quando sugli schermi arrivò The banquet (Yeyan) di Feng Xiaogang, presto dimenticato, nonostante la buona accoglienza che addirittura Venezia gli accordò. Un wuxia danzante, cifra di un’industria cinematografica che si arricchisce attraverso la riproposizione di un passato mitico, terribile, dove la sospensione tragica materializza tabù come il fratricidio, l’incesto, il cannibalismo.
Qualcuno allora sollevò l’audace parallelo tra il personaggio interpretato dall’onnipresente Zhang Ziyi e il caposaldo shakespeariano. Come ebbe a spiegare lo stesso Feng durante un’intervista, è più facile convincere i distributori occidentali ad acquistare un film cinese che millanti di ricalcare la vicenda di Amleto, Claudio e Gertrude, piuttosto che confessare la verità, e ammettere che si tratti dell’ennesimo film su un complotto di corte.
L’analogia spesso può generare mostri, soprattutto quando cessa di procedere per continuità e innesca un andamento per opposizioni. Pur avendo una conoscenza mediocre del mercato cinematografico dell’Asia Orientale, sono convinto che la dialettica che vede opposte Zhang Ziyi e Gong Li sia degna di diventare un giorno materia di studio. In tempi non sospetti, ovvero prima che le due inscenassero una sorta di staffetta generazionale in Memorie di una geisha, l’avvincedamento tra le due icone femminili del cinema cinese ha significato qualcosa di più di una semplice successione al trono.
Tanto Zhang incarna un modello ortogonale alla nuova onda ortodosso–pop di cui addirittura il segretario del Partito Comunista Cinese Xi Jinping si è fatto testimonial e garante, così madre Gong ha suscitato lacrime e applausi nel corso di una carriera tenebrosa e antagonista, nel cui solco ha seminato l’epica di una generazione cresciuta all’ombra della Rivoluzione Culturale. Zhang incarna la prestanza fisica e intellettuale di un popolo che si presenta all’occidente sotto il segno della flessibilità, certo, ma conservando cristallina la propria identità, senza compromessi. Gong ha dato volto a donne che hanno inscenato il conflitto contro un mondo, un sistema, un’egemonia. Non occorre uno studio approfondito, ma solo buona memoria: Sorgo rosso, Ju Dou, Lanterne rosse, La storia di Qiu Ju, Addio mia concubina, Vivere!, La triade di Shanghai, Le tentazioni della luna.
Fino alla fine del Novecento, l’epopea artistica di Gong si è sviluppata, per la maggior parte, in una regolare alternanza tra Zhang Yimou e Chen Kaige, esprimendo il tratto fiero, e internazionale, di un linguaggio che sapeva procedere oltre la muraglia cinese. E anche quando si è affacciata dalle parti di Hong Kong o negli Stati Uniti, Gong Li ha lasciato un’impronta certo non trascurabile (2046 di Wong Karwai e Miami Vice di Michael Mann su tutti).
Al contrario la più giovane Zhang Ziyi, dopo il lancio voluto dal suo mentore Zhang Yimou con La strada verso casa (si badi: i più noti Hero e La foresta dei pugnali volanti erano ancora lungi a venire), è stata subito arruolata da Ang Lee per il rilancio del wuxia su scale mondiale con la produzione del celeberrimo La tigre e il dragone. Volto della Cina in occidente, Zhang Ziyi non conduce con sé nessuna frattura, nessuna torsione, anzi, sembra quasi impersonare la garanzia che ogni cosa in patria proceda per il meglio. Gong Li e Zhang Ziyi, a loro modo l’alfa e l’omega del nuovo cinema cinese, entrambe dirette e supportate dall’alto ingegno di Zhang Yimou.
L’opposizione, si diceva. La stessa che è insita anche nel titolo originale dell’ultima opera proprio di Zhang, Guilai, ovvero Il ritorno. Volontà d’autore tenuta pressoché intatta anche dai distributori occidentali, che hanno scelto un saggio Coming home, declinato poi nel nostro Tornando a casa, che sembra voler imprimere alla fissità cinese un moto dinamico, di fenomeno in corso.
Basato su una novella della scrittrice Yan Geling (dalla stessa penna veniva l’idea per il precedente I fiori della guerra), il film narra alcune vicende della vita di Lu Yanshi, professore e intellettuale, vittima della deportazione nelle campagne negli anni della Rivoluzione Culturale. L’uomo riesce a scappare dalla prigionia e a raggiungere l’amatissima moglie Feng Wanyu (nel film Gong Li), ma il tradimento della figlia Dandan (che baratta la libertà del padre con un posto di rilievo in un corpo di ballo) lo precipita nuovamente nell’inferno della rieducazione. Quando tornerà a casa, il mondo che era stato costretto a lasciare non c’è più. Al suo posto troverà la desolazione dei sopravvissuti, tra i quali anche sua moglie che, ormai immemore del marito, non lo riconosce.
Questo il plot, in brutale sintesi. Prima di qualunque analisi, vale la pena ribadire come Zhang Yimou sia oggi uno degli artisti più influenti della sua generazione. Un’autorità, sebbene qualche scandalo legale (la reiterata trasgressione dell’ex legge sul figlio unico) ne abbia di recente appannato l’immagine agli occhi del pubblico cinese. Un artista completo, punta della Quinta Generazione, regista passato dal vedersi proibita la distribuzione dei suoi film sul mercato cinese, fino a conquistare il ruolo di corifeo della cerimonia di apertura della Olimpiade di Pechino.
Vale anche la pena ricordare l’opera del regista sia legata a doppio filo con le vicissitudini delle opere di alcuni tra i maggiori scrittori contemporanei cinesi. Non a caso la prima pellicola che ha segnato il successo mondiale del regista, prende le mosse dalla messa in sceneggiatura di Sorgo rosso (Hong gaoliang, 1986), riconosciuto capolavoro di Mo Yan. Ma non solo. Dalla riduzione cinematografica del romanzo di Su Tong, Mogli e concubine (Qiqie chengqun, 1989) nasce il successo planetario di Lanterne Rosse. Qualche anno più tardi sarà invece il turno di Vivere! (Huozhe, 1993) di Yu Hua, che darà materia a un altro titolo fondamentale del capostipite della Quinta Generazione.
Mo Yan, Su Tong, Yu Hua, sono solo alcuni dei nomi degli scrittori di fama mondiale che, cresciuti artisticamente nella Cina emersa dalle ceneri roventi della Rivoluzione Culturale Proletaria, hanno poi raggiunto la maturità – e la fama – nella nazione disegnata da Deng Xiaoping. Diciamo solo che da Mo Yan – con tutti i necessari distinguo del caso – a Yan Geling, il passo non è né breve, né banale. Fatti queste brevi premesse, è forse utile concentrarsi ancora intorno al titolo dell’ultimo film di Zhang Yimou, e dilatarne il senso fin quando è lecito.
Se Zhang Yimou ‘torna a casa’, almeno nella parabola tratteggiata in video, c’è da far tremare i polsi. Se Zhang Yimou torna a raccontare la deportazione nelle campagne, le tragedie familiari che sono la sua cifra d’elezione, se Zhang Yimou torna alle origini di una nazione, al legame di sangue che tiene insieme l’esplosione del regime maoista negli anni Sessanta e la violenta repressione di quello denghista negli anni Ottanta, bisogna spalancare gli occhi e tendere le orecchie. Quante promesse in un titolo solo.
E chissà, magari il ritorno citato vorrebbe criptare anche un ritorno alle origini del proprio cinema, a quel modo elegante e tragico di disinnescare i tabù di una tradizione culturale attraverso storie impossibili e vere, racconti di eroi che lottano sempre dall’altra parte della barricata, quella perdente, ma da vincitori.
Cosa ci suggerisce in tal senso la scelta di Gong Li nella parte della moglie immemore del protagonista? Ritornare a casa, nella casa della propria creatività originaria, significa anche ritornare a quell’attrice con cui tutto ha avuto inizio? Guilai non ha mancato di sollevare dubbi, polemiche, accese prese di posizione, ma tutto questo per un film è sempre buona cosa. Tuttavia, perché tornare oggi a raccontare la Rivoluzione Culturale attraverso una storia di amnesia?
L’amore incondizionato di Lu Yanshi verso la moglie vuol forse significare che si può – si deve – guardare a un futuro di pacificazione in nome di un sentimento più alto del rancore individuale, della rabbia repressa di almeno due generazioni di cinesi? Un film ortodosso verrebbe da dire, e l’ortodossia è forse una delle leve dell’ultima produzione di Zhang Yimou. Ma ortodosso in quel senso?
La notizia è giunta anche da noi in Italia con un memorabile reportage di Simone Pieranni sulle pagine del Manifesto, dopo aver attraversato con un moto elettrico tutto il mondo. Xi Jinping e il Partito comunista cinese hanno annunciato che artisti, sceneggiatori, registi, attori, produttori di cinema e televisione dovranno recarsi in campagna «per imparare la vita vera».
Senza disturbare Marx e l’adagio per cui la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa, questa riedizione della Rivoluzione culturale, avrebbe un fine pedagogico ‘morbido’, proprio come ha scritto l’agenzia ufficiale Xinhua: «Una spinta per aiutare gli artisti a formarsi una corretta visione dell’arte e creare nuovi capolavori». È l’ombra lunga della «linea di massa», del realismo di stato, esito del poderoso revival maoista di cui la nuova nomenclatura cinese si è fatta promotrice.
Si farebbe un errore a pensare che il cosiddetto Sogno cinese (perverso ibrido semantico), scandito dai clamorosi successi economici (ma anche dal terrore di una recessione improvvisa), non richiedesse una sorta di ‘secondo tempo’, durante il quale venisse rivista la produzione culturale, e i suoi maggiori protagonisti. Le pulsioni sociali che fanno vibrare il corpo cinese sono un’incognita da tenere sotto controllo.
Il divario, lo scavo di un solco sempre più profondo tra chi si arricchisce e chi soccombe, con tutta evidenza, deve essere governato anche attraverso il rafforzamento di un’identità di patria risolta, transclassista, che abbia chiuso i conti con il passato e possa aprirne di nuovi con il futuro. Pechino, dunque, val bene trenta, novanta giorni trascorsi nei villaggi, nelle aree di confine, ovvero in quelle terre che – nessuno cessa mai di ricordarlo – hanno contribuito alla vittoria della rivoluzione di Mao.
C’era una volta nelle università statunitensi il New Historicism, una grande lezione, una lettura dell’arte (e del mondo) che oggi, dopo il trionfo del sistema neoliberista (anche di quello con caratteristiche orientali), si svela particolarmente efficace. Se l’opera d’arte è espressione di una forza sociale; se è lecito ipotizzare che le pratiche non artistiche siano in un continuo rapporto di interazione con quelle estetiche, formando un’unica molecola; se l’opera d’arte è una delle rappresentazioni possibili di un simile rapporto, allora l’ultimo film di Zhang Yimou incornicia forse un ganglio nuovo nella dialettica potere vs. eversione.
Nella storia del cinema cinese (ma limitarci al cinema è solo un obbligo astratto) vi è stato un processo di mutazione in virtù del quale i vecchi dissidenti di ieri sono diventati i cantori del nuovo corso, o quantomeno il loro controaltare organico. E così di nuovo Amleto: essere o non essere assimilati, essere o non essere il pungolo del sistema?
*Danilo Soscia è nato a Formia nel 1979. Studioso di letteratura di viaggio e di cultura cinese, vive e lavora a Pisa. Ha esordito nella narrativa nel 2008 con Condòmino (Manni). Ha curato il volume In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo 1904-1999 (Ets) e In Giappone. Scrittori italiani alla scoperta del Sol Levante (Ets), di prossima uscita.