Zhang Huan è un’artista concettuale cinese famoso per la sua performance art. In questa nuova puntata di Chinoiserie, la rubrica sull’arte cinese a cura di Camilla Fatticcioni, inizia il racconto della Cina Contemporanea attraverso i suoi artisti.
Ai margini della Pechino degli anni novanta, un collettivo di artisti cinesi inizia a far parlare di sé e delle sue performance a sfondo politico. Nel 1993 un quartiere di case popolari della periferia orientale della città diventa lo scenario d’avanguardia del collettivo Beijing East Village. Il clima politico degli anni dopo le proteste di piazza Tiannamen, insieme alla messa al bando delle pratiche artistiche d’avanguardia, spingono il collettivo a trovare nella natura temporanea della performance art uno sbocco relativamente sicuro per l’espressione dissidente. Un giovane Zhang Huan, leader di questo gruppo, diventa presto noto per le sue performance estreme, che però portano il collettivo a una fine prematura nel 1994.
L’arte di Zhang Huan è nata nello squallore e nella povertà delle periferie, e ancora oggi riesce a penetrare come gli odori nauseanti del bagno pubblico che ospitò una delle sue prime e più famose performance.
Il linguaggio del corpo
Nel 1994, Zhang Huan mette in scena la performance 12 Square Meters: resta seduto per ore in un bagno pubblico, nudo con il corpo cosparso di olio e miele. Le fotografie, scattate dal collega e fotografo Rong Rong, mostrano il corpo dell’artista riempirsi man mano sempre di più di mosche e altri insetti. Durante tutta la performance, Zhang Huan rimane immobile in meditazione, incurate delle mosche che gli camminano addosso. Oltre a essere un esercizio di autodisciplina, questa performance è una protesta contro le condizioni di vita putride di gran parte della Cina di quegli anni, dove bagni pubblici delle periferie esistono all’ombra dei grattacieli.
© Zhang Huan, 12 Square Meters (1994)
Questa, però, non è una delle sue opere più estreme. Sempre nello stesso anno, Zhang Huan si fa appendere con delle catene al soffitto di casa, e chiede a dei medici di prelevargli 250 millilitri di sangue. La performance è oggi conosciuta come 65 Kilograms, nome che rimanda al peso dell’artista in quel momento. Pochi giorno dopo la performance, Zhang Huan viene arrestato insieme agli altri membri del Beijing East Village con l’accusa di aver creato e distribuito pornografia.
Zhang Huan utilizza il proprio corpo per raccontare tematiche complesse come la povertà e il senso di appartenenza e identità. Portando all’estremo le proprie condizioni fisiche, l’artista indaga la natura umana attraverso quella che lui stesso descrive come una “sensazione di sopravvivenza.”
Il potere penetrante delle performance di Zhang Huan non deriva solo dalla loro forza formale, ma dalla loro capacità di comunicare le profonde intuizioni dell’artista sulla condizione umana. I suoi primi lavori catturano la risoluta volontà di sopportare le difficoltà della vita in Cina e di affrontare un futuro in cui il cambiamento sembra avvenire, ma in realtà non avviene.
© Zhang Huan, 65 Kilograms (1994)
Memoria e adattamento
Alla fine degli anni novanta Zhang Huan si trasferisce a New York, e il suo lavoro abbraccia l’apertura della società statunitense assieme al bisogno di definire e cercare le proprie radici e memoria nella cultura cinese.
The Family Tree (2001) è forse una delle sue opere più famose e potenti, nata dall’esigenza di ricerca d’identità in un paese straniero. Nell’opera il volto di Zhang Huan diventa la tela di tre calligrafi che gradualmente riempiono la pelle dell’artista di nomi e storie del suo passato e termini di fisiognomica, pratica divinatoria cinese che viene svolta attraverso la lettura dei tratti del viso.
In nove fotografie, il volto di Zhang Huan si riempie gradualmente di caratteri e nozioni, fino a scomparire totalmente dietro uno spesso strato d’inchiostro. L’artista racconta la propria crisi d’identità dopo l’arrivo negli Stati Uniti, sente la sua personalità oscurata, ma anche caratterizzata dall’essere cinese.
© Zhang Huan, The Family Tree (2001)
Il senso di inadeguatezza della vita da immigrato a New York viene anche ripresa nell’opera My America (2000). Cinquantasei statunitensi nudi, di età e provenienza diverse, stanno solennemente in piedi su un’impalcatura a tre livelli al centro del Seattle Asian-Art Museum. Zhang Huan siede al centro della composizione, dentro una piscina per bambini. Tutta la performance si svolge in maniera teatrale. Le persone eseguono le istruzioni dell’artista: pregano, praticano Tai Chi, lanciano del pane contro Zhang Huan e escono di scena insieme a lui. Zhang Huan concepisce questa performance collettiva come un pellegrinaggio che fonde gli approcci occidentali e orientali alla spiritualità. Con questa quindi celebra la libertà che ha trovato a New York, ma anche le difficoltà di adattamento in un paese straniero. Ancora una volta, Zhang Huan usa il corpo come linguaggio e come mezzo: è il modo più diretto per entrare in contatto con sé stesso e con la società.
© Zhang Huan, My America (2000)
Verso un approccio più spirituale
La spiritualità è sempre stata una costante nella produzione artistica di Zhang Huan, ma decide di abbracciare a pieno questa tematica dopo la sua conversione al Buddhismo e il rientro in Cina nel 2006. Abbandona quindi la performance art e inizia a lavorare con la scultura, attraverso un processo che lui stesso definisce “un rituale religioso.”
Tra Sidney e Berlino, Zhang Huan realizza delle gigantesche statue di Buddha fatte di circa 20 tonnellate di cenere d’incenso. Zhang Huan considera la cenere un elemento simbolico, in quanto rappresenta le speranze e le preghiere di coloro che bruciano abitualmente l’incenso nei tempi. In queste installazioni, le statue di cenere fronteggiano delle copie in metallo. Mentre i Buddha fatti d’incenso cadono a pezzi con il passare del tempo, la loro figura in metallo resta immutata nel presente. Questo secondo l’artista mette in risalto la relazione tra anima e materia.
© Zhang Huan, Sidney Buddha (2015)
Dalle prime performance nate nel quartiere del Beijing East Village a oggi, Zhang Huan esplora attraverso sé stesso le tematiche più complesse della natura umana. Dalla povertà al senso di appartenenza e identità arriva a un’interpretazione sul senso dell’esistenza umana. Un crescendo che parte dal basso dei bagni di periferia per arrivare all’elevazione spirituale.
L’arte di Zhang Huan oggi continua a avere una forte valenza di critica sociale, ma l’artista sostiene di non aver mai voluto né combattere né sfidare nessuno, descrivendo sottolineando la valenza catartica e autobiografica della sua produzione artistica.
*Alcuni dei contenuti di questo articolo sono stati tratti dall’intervista a Zhang Huan nel libro “Il Dragone d’acciaio – Interviste a dieci artisti cinesi” di Annarita Curcio.
Di Camilla Fatticcioni
Fotografa e studiosa di Cina. Dopo la laurea in lingua Cinese all’università Ca’ Foscari di Venezia, Camilla vive in Cina dal 2016 al 2020. Nel 2017 inizia un master in Storia dell’Arte alla China Academy of Art di Hanghzou avvicinandosi alla fotografia. Tra il 2022 e il 2023 frequenta alcuni corsi avanzati di fotografia presso la Fondazione Studio Marangoni di Firenze. A Firenze continua a portare avanti progetti fotografici legati alla comunità cinese in Italia e alle problematiche del turismo di massa. Combinando la sua passione per l’arte e la fotografia con lo studio della società contemporanea cinese, Camilla collabora con alcune testate e riviste e cura per China Files una rubrica sull’arte contemporanea asiatica.