Nelle ultime settimane gli studenti di alcune delle maggiori università di Pechino hanno protestato contro le restrizioni sempre più limitanti della politica Zero Covid. La gestione degli ultimi focolai sta esasperando questioni già complesse, come la saturazione del mercato occupazionale a fronte della enorme offerta di laureati. Il contenuto è un estratto dalla newsletter settimanale disponibile per i sottoscrittori di China Files. Qui per sapere come ottenerla.
I campus universitari di Pechino dovranno rispettare le misure di quarantena in quanto aree chiave di controllo epidemico. Lo ha chiarito mercoledì 25 maggio il portavoce della Commissione municipale per l’istruzione, Li Yi, aggiungendo, tuttavia, che gli atenei potranno abbracciare un certo grado di flessibilità e permettere agli studenti di far ritorno alle proprie case “in modo sicuro e ordinato”. Un leggero allentamento che giunge dopo settimane di chiusura delle università della capitale, nel rispetto delle stringenti misure di contenimento dei nuovi focolai della variante Omicron. Ma le forti limitazioni agli accessi – e, soprattutto, alle uscite – e i controlli ferrei dei beni introdotti nelle aree dei campus hanno provocato un’ondata di contestazioni.
Covid e università
Nell’ottica di impedire qualsiasi contatto con l’esterno – compresi gli ordini di food delivery – nelle scorse settimane la Tsinghua University ha rafforzato le recinzioni del perimetro del campus con lastre di metallo. Gli studenti e il personale sono stati obbligati a ripetuti test ed è stata predisposta la chiusura di varie aree, tra cui le mense, malgrado l’assenza di positivi. Una situazione simile anche alla Beijing Normal University, dove lo scorso martedì centinaia di studenti si sono riuniti nella piazza centrale del campus per chiedere delucidazioni sulla possibilità di tornare dalle proprie famiglie e sulle modalità con cui dovranno svolgere gli esami estivi. Una protesta che molti hanno descritto come controllata e tranquilla, conclusasi attorno a mezzanotte dopo le rassicurazioni da parte dell’università che non sarebbero stati presi provvedimenti punitivi.
Il “muro di Berlino” della Beida
La sera del 15 maggio gli studenti della Beijing University (comunemente chiamata Beida) che abitano nell’area residenziale di Wanliu, dislocata rispetto al campus principale, hanno scoperto che le autorità si erano affrettate a costruire una struttura di pannelli per separare i dormitori studenteschi dalle aree dedicate al personale. Una decisione criticata come profondamente ingiusta, che avrebbe imposto agli studenti misure di confinamento più ferree rispetto al resto del campus.
Reclamando a gran voce che le restrizioni fossero applicate in egual misura a tutte le aree della Beida, e al grido di “tirate giù il muro di Berlino” (拆除柏林墙 chaichu Bolinqiang), i manifestanti si sono radunati nei pressi della barricata, chiedendo che il rettore della Beida Hao Ping 郝平 si presentasse ad ascoltare le istanze della piazza. Sul posto è comparso, tuttavia, il vicerettore Chen Baojian 陈宝剑 – il cui dialogo è stato tradotto dalla piattaforma indipendente China Digital Times: parlando al megafono, l’uomo ha pregato agli studenti che stavano tentando di smantellare la struttura di fermarsi: “Abbatterò il muro io stesso! Ma voi tornare ai vostri dormitori”. Ha poi giurato che non se ne sarebbe andato via finché il problema non fosse stato risolto. “Non possiamo andarcene neanche noi!”, si è sentito dalla folla. Il botta e risposta tra Chen e i manifestanti si è concluso con le promesse da parte del funzionario di visitare quella notte stessa tutti i dormitori per parlare personalmente con gli studenti e spiegare loro la situazione.
Come si legge in una ricostruzione ad opera di uno studente dell’università (condivisa sempre da China Digital Times), all’una di notte circa alcuni studenti sono stati incoraggiati a identificare i partecipanti alla manifestazione. Secondo altre fonti, nelle ore successive sarebbe stato garantito il permesso di ricevere pacchi dall’esterno, previa sanificazione. Di fatto, la struttura è stata smantellata e gli hashtag #BeidaWanliu (#北大万柳) e #BeijingUniversity (#北京大学) hanno riempito i social media come Weibo, prima di essere inevitabilmente censurati.
La tradizione di lotta della Beida
In un altro approfondimento di China Digital Times, uno dei manifestanti ha detto in riferimento alle contestazioni fatte a Chen Baojian che contrastare le autorità è una cosa tipica della Beida. “Fortunatamente, dopo 100 anni, gli studenti del nostro campus sono ancora così vivaci ed energici”, recita un commento di un utente su Weibo. Un altro sulla stessa linea si congratula che lo spirito del Movimento del Quattro Maggio – una delle date storiche più sentite e importanti del XX secolo cinese – sia ancora vivo. In quella data, nel 1919, migliaia di studenti scesero per le strade della capitale in una protesta che assunse toni anti-imperialisti contro i cosiddetti “trattati diseguali” imposti dalle potenze antioccidentali.
Una delle tante tappe della storia recente del paese in cui la Beida ha ricoperto un ruolo di primo piano: luogo di influenti proteste politiche come quella del 1989 di piazza Tiananmen, nel 2013 è diventata sede di una delle più attive società marxiste studentesche – in cui si affrontavano temi quali accessibilità allo studio e femminismo e i cui membri hanno creato un gruppo di supporto ai lavoratori della oramai nota protesta della Jasic dell’estate 2018. Ma arresti multipli hanno smembrato la rete degli attivisti.
La situazione pandemica della capitale
Le recenti proteste studentesche rappresentano il culmine di un sentimento di sfiducia che si è inasprito con le misure di contenimento che da oltre un mese interessano la capitale. Se non si conta il picco di 99 contagi – compresi gli asintomatici – registrati nella giornata di lunedì di questa settimana, i casi sembrano essere sotto controllo e mercoledì il loro numero è sceso a 45. Ma la persistenza di focolai sporadici indica che le restrizioni come i test di massa, la sospensione delle lezioni scolastiche e delle attività lavorative in presenza e i posti di controllo attivi in ogni area residenziali e in ogni quartiere non siano sufficienti a sopprimere la variante Omicron, a fronte di ingenti perdite economiche.
Laureati e mercato del lavoro
L’economia si contrae, ma i laureati aumentano. Secondo le stime quest’anno supereranno per la prima volta i 10 milioni – circa il 18% in più rispetto al 2021. Il Covid sta dando il colpo di grazia a un mercato del lavoro già saturo e già bersagliato dagli intenti di rettifica che il governo ha diretto contro le grandi aziende tecnologiche del paese. Il risultato? Il tasso di disoccupazione – che a marzo ha toccato il 5,8% – è a livelli record dal 2020, ma quello che riguarda i giovani di città tra i 16 e i 24 anni è di gran lunga peggiore: nel 2021 ha superato in media il 14% e ad aprile di quest’anno è salito al 18,2%, cifre mai viste dall’inizio dell’indagine nazionale nel 2018.
Le autorità del paese hanno identificato i laureati come un gruppo che “desta particolare preoccupazione”, e di recente il premier Li Keqiang ha descritto la situazione occupazionale del paese come “complessa e cupa“. Si guarda a settori che possono tamponare la situazione, come l’economia delle piattaforme. Pare che i ventenni, invece, scelgano di continuare a formarsi: l’Economist ha riportato che alla fine dello scorso anno un numero record di 4,6 milioni di persone ha sostenuto l’esame di accesso per le scuole di specializzazione, registrando un aumento di oltre il 21% rispetto all’anno precedente. Oppure, vista l’instabilità negli ambienti del tech, si interessano a lavori nella pubblica amministrazione o nelle imprese statali – che secondo la nota società di reclutamento Zhaopin sono le preferite dal 44% dei neolaureati di questi mesi.
Marchigiana, si è laureata con lode a “l’Orientale” di Napoli con una tesi di storia contemporanea sul caso Jasic. Ha collaborato con Il Manifesto, Valigia Blu e altre testate occupandosi di gig economy, mobilitazione dal basso e attivismo politico. Per China Files cura la rubrica “Gig-ology”, che racconta della precarizzazione del lavoro nel contesto asiatico.