È morto Xu Xiangshun (Alvise Giusti), da alcuni soprannominato “il contadino cinese dalle origini italiane” e definito da Piero Angela “l’italiano di Wenzhou”. Lo ha annunciato sua figlia il 16 settembre scorso sul suo profilo Douyin. La sua storia, tra Cina e Italia, interseca i grandi eventi del secolo scorso alla personale ricerca di una propria identità culturale, rimasta incompresa sia nel paese d’adozione tanto in quello d’origine.
Xu Xiangshun era un uomo che abitava nella campagna del Zhejiang e parlava solo il dialetto di Wenzhou, ma era conosciuto da tutti nel villaggio per i suoi tratti somatici caucasici, decisamente inusuali per un anziano contadino dell’entroterra cinese. La sua notorietà in Cina risale alla fine degli anni ‘90, quando Xu si era rivolto ai giornali locali per ritrovare la sua famiglia italiana, con cui aveva perso i contatti circa cinquant’anni prima. Con non poche difficoltà si riuscì a risalire ai parenti della madre, l’italiana Alcide Giusti originaria di Sesto al Reghena (Friuli), che Xu riuscì finalmente a incontrare nel 2001. Per capire quanto la ricerca delle sue origini sia stata importante, bisogna però ripercorrere l’intricato susseguirsi di eventi che portò l’uomo e sua madre nel villaggio di Shen’ao, poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Alcide Giusti era nata nel 1917 a Bagnarola – un piccolo paese dell’allora provincia di Udine – e viveva a Legnano, in provincia di Milano, dove si era trasferita con la famiglia intorno ai nove anni. Il padre era morto durante la battaglia di Caporetto e la madre doveva occuparsi da sola di tre figli, nel contesto di un’Italia indebolita dalla guerra. In Friuli, la cui economia si basava quasi esclusivamente sull’agricoltura, non c’erano allora grandi prospettive di vita per vedove e orfani senza reddito e a una grande fetta della popolazione non restava che cercare occupazione nelle città vicine o fuori dall’Italia. Le donne friulane fin dall’inizio del 1900 prendevano servizio come balie presso famiglie benestanti, alcune andavano nelle fornaci a fare le manovali, altre ancora si recavano nei cotonifici e nelle filande di Udine, Milano e Torino. Quest’ultimo è il caso della famiglia di Alcide, che scelse la zona di Legnano perché ricca di industrie e tessiture.
Nel 1944 Alcide era rimasta incinta di un uomo che l’aveva abbandonata e la sua famiglia, per risparmiarle sgradite voci di quartiere, sosteneva che si trattasse di un soldato morto al fronte. Il 10 novembre 1944, all’ospedale di Legnano, nasceva Alvise Giusti. In quell’anno Alcide lavorava in una delle numerose manifatture cinese, fiorenti in quegli anni, gestita da ex venditori ambulanti di perle che si erano convertiti al commercio di seta e pelle. Xu Dingfu invece era un commerciante cinese, molto probabilmente giunto in Europa intorno agli anni ‘30 e stabilitosi in Italia nel 1937. Lavorava in una bottega in via Morazzone – una delle strade che compongono l’originario quartiere cinese di Milano – distrutta nel 1943 dai bombardamenti. Il danno subito lo portò a trasferirsi a Legnano dove gestiva una fabbrica di oggetti in finta pelle, la stessa in cui lavorava anche Alcide.
I due presto iniziarono a frequentarsi. Alcide era una donna sola con un figlio e Xu Dingfu era sì un immigrato, ma anche un commerciante in condizioni economiche stabili; le sartine e le lavandaie italiane – spesso anch’esse emigrate dalla provincia – che all’epoca popolavano il quartiere cinese avevano una considerazione molto positiva dei cinesi dell’epoca: uomini gentili, eleganti e puliti, e il loro modo di corteggiare certamente si distingueva da quello degli uomini italiani di allora, abituati all’educazione amorosa dei bordelli. Era comprensibile che due soggetti che la società relegava ai suoi margini si unissero.
Nell’aprile 1945 Alcide rimase incinta di Xu Dingfu: il figlio, Roberto Nello, sarebbe nato circa un mese dopo il loro matrimonio, celebrato il 12 dicembre 1945 nella Parrocchia della Purificazioni di Maria Vergine a Legnanello. In quegli anni si formarono molte altre coppie miste italo-cinesi e il ruolo delle mogli italiane fu importantissimo per l’integrazione dei loro mariti nella società: gli insegnarono la lingua, gli usi e i costumi del luogo e prestarono loro le conoscenze acquisite lavorando nelle manifatture. Inoltre furono anche la salvezza dei loro consorti durante la Seconda guerra mondiale, poiché i cinesi sposati con donne italiane vennero risparmiati dall’internamento nei campi di concentramento, cui invece fu sottoposto più del 65% dei cinesi d’Italia.
Il lavoro di Xu Dingfu sembrava andare molto bene, la guerra era finita e lui si era anche iscritto alla neonata Associazione dei lavoratori e dei commercianti cinesi d’oltremare a Milano. Proprio quando l’idea di un ritorno in Cina sembrava lontana, Xu fu raggiunto da una lettera da parte di suo zio, in cui dichiarava che il padre era morto dopo un breve periodo di malattia e lo pregava di tornare a casa. Nel pieno rispetto degli ideali confuciani di pietà filiale e scontrandosi con le opinioni della famiglia di Alcide, che voleva restassero in Italia, Xu Dingfu, Alcide e i due bambini salparono da Napoli verso la Cina il 21 settembre 1946, insieme ad altri 563 rimpatriandi, con l’ultimo dei trasferimenti gratuiti messi a disposizione dei cittadini cinesi alla fine della guerra. Il viaggio durò quaranta giorni, durante i quali il neonato Roberto Nello si ammalò e perse la vita. Una volta giunti al villaggio d’origine di Xu Dingfu, la famiglia scoprì che in realtà il padre era ancora vivo e quanto scritto nella lettera era solamente un tranello per riportare in Cina il figlio, che ormai mancava da casa da molti anni.
La famiglia si adattò alla nuova casa. Nel 1949 Alcide partorì un’altra bambina e nello stesso anno, dopo la guerra civile tra il Partito nazionalista e quello comunista, venne proclamata la nascita della Repubblica popolare cinese. Il Partito comunista però aveva bisogno di mantenere alto il coinvolgimento del popolo; dal 1951, durante la riforma agraria, la polizia e le milizie locali si occuparono dell’epurazione di città e campagne da ogni genere di soggetto controrivoluzionario, i quadri di partito incitavano gli abitanti alla lotta di classe: i beni vennero espropriati, gli imprenditori e i proprietari terrieri vennero denunciati e mandati a morte. In un clima sociale del genere Alcide, straniera e moglie di un commerciante che aveva fatto fortuna all’estero, era sicuramente in una posizione scomoda. Infatti, pochi anni dopo il suo arrivo in Cina, perse la vita.
Secondo quanto riportato sul certificato di morte, nel 1950 passò per il villaggio di Shen’ao un gruppo di soldati, i quali bussarono con violenza alla porta di casa di Alcide, spaventandola letteralmente a morte. Dal grande spavento cadde malata e per mesi la sua famiglia la portò in vari ospedali per farla trattare, ma nel dicembre 1951 morì. Più probabilmente, si può supporre che Alcide non sia deceduta di crepacuore, bensì sia stata vittima di violenze da parte di quelle milizie. A riprova di questa versione, in una testimonianza contenuta nel libro Aspettando la fine della guerra di Brigadoi Cologna, Giuliana Cicchetti, una donna di Teramo che seguì suo marito in Cina dopo la guerra, racconta che «Si stava bene all’inizio, prima dei comunisti. Poi iniziammo a vedere i soldati caricare le persone sui carri, portarle su una collina, far scavare loro una buca e poi giustiziarli. Non perché avessero fatto qualcosa, ma solo perché erano benestanti o avevano negozi. Entravano nelle case a tutte le ore per vedere cosa mangiavamo, chiedevano ai bambini di cosa parlassero i genitori in casa, ci facevano chiedere scusa perché li avevamo sfruttati, dovevamo consegnare il rogito della casa».
Così nel 1951 Alvise perdeva sua madre e con essa anche ogni legame con l’Italia. Per un certo periodo Xu Dingfu provò a mantenere i contatti con la famiglia di Alcide, operazione molto macchinosa: sua cognata Erminia doveva recarsi nella Chinatown milanese da alcuni suoi amici per fargli tradurre le lettere dall’italiano al cinese e, quando arrivavano le riposte di Xu Dingfu, doveva tornare a farsele tradurre in italiano. Ben presto i contatti furono interrotti e la famiglia Giusti non seppe più niente del giovane Alvise.
Le sorti della vita di Alvise, tuttavia, dipesero anche da un altro evento centrale: Xu Dingfu aveva perso in mare il primogenito legittimo, Roberto Nello, mentre la secondogenita era una bambina. Alvise era il suo unico erede maschio e avrebbe dovuto occuparsi di portare avanti la famiglia. Per la paura che crescendo volesse abbandonare la Cina e tornare in Italia – seguendo il desiderio della madre –, Xu Dingfu raccolse tutti i documenti italiani in suo possesso e li nascose dentro un buco nella parete dietro il suo letto. Poco tempo dopo si risposò e decise di inserire il figlio nell’albero genealogico della sua famiglia: Alvise Giusti diventava ufficialmente Xu Xiangshun.
Nessuno trovò quei documenti fino alla morte di Xu Dingfu, nel 1993, quando la famiglia stava ristrutturando un’ala della casa e rinvenne degli oggetti strani nel buco di una parete: carte d’identità, permessi di soggiorno, fotografie, certificati di matrimonio… Xiangshun da quel momento si recò più volte all’Ambasciata italiana a Pechino e al Consolato italiano a Shanghai per cercare di contattare la famiglia di sua madre, senza però riuscire a spiegarsi. Gli impiegati di questi uffici erano stupiti dal suo aspetto, ma non capivano come mai quest’uomo chiedesse il passaporto per andare in Italia e lui non riusciva a decifrare i documenti in suo possesso, tutti scritti in italiano.
Nell’aprile del 2000, l’ex presidente dell’Associazione commerciale e industriale dei cinesi in Italia di Milano, Zheng Yaoting, fu contattato dal giornalista Zhang Yi, il quale si occupò di diffondere l’appello di Xiangshun sul quotidiano di Rui’an con l’articolo «Cara famiglia italiana, dove sei?». Zheng Yaoting era proprietario del ristorante Kui Lin in via Lomellina, a Milano, ed era amico di un uomo italiano appassionato di lingua cinese, Carlo Garbagni, e di sua moglie Gianna. La signora Garbagni racconta che è iniziato tutto come una normale conversazione tra amici nel salotto di casa sua: Zheng Yaoting li metteva al corrente di questa storia particolare e i signori Garbagni, incuriositi, gli suggerivano dove cercare; non avrebbero immaginato che sarebbero stati loro stessi, l’anno dopo, a mettersi all’opera per le ricerche. Passando tramite gli uffici dell’anagrafe dei vari comuni di Milano, Legnano e Pordenone, trovarono certificati di nascita e altri documenti grazie a cui risalirono al comune di Bagnarola, che li mise finalmente in contatto con la famiglia Giusti, in particolare con le cugine di Alcide, Rina, Miuti, Cochi e Iolanda.
Finalmente Xiangshun aveva le prove delle sue origini e nell’ottobre 2001 riuscì a tornare in Italia per visitare i suoi luoghi d’origine e conoscere la famiglia. Vedere i posti in cui aveva vissuto per pochi anni della sua vita lo commosse moltissimo, soprattutto la visita al Duomo di Milano, di cui sua mamma gli raccontava spesso quando erano in Cina. Riconobbe però di sentirsi spaesato, perché la sua vita l’aveva trascorsa da cinese, non da italiano, e non conosceva niente del suo paese natale.
Quell’anno i blog, i giornali locali e addirittura le televisioni italiane e cinesi pubblicavano articoli e servizi improntati alla ricerca dell’identità di Xiangshun: lo definivano “un italiano disperso in Cina”, “il contadino straniero”, “l’italiano di Wenzhou”, e sembravano tenerlo in considerazione unicamente per il suo insolito aspetto fisico. Piero Angela, nell’episodio di Superquark del 14 agosto 2002, sosteneva che fosse «un italiano vero con gli occhi verdi, il naso lungo, i capelli un tempo biondi» e sottolineava come la sua «faccia italianissima» non fosse bastata alla burocrazia cinese per risalire alla sua cittadinanza, ma non teneva affatto conto di tutte le altre ragioni per cui Xiangshun non si sentiva italiano.
Xiangshun durante la sua vita in Cina dovette arrendersi a essere sempre considerato lo straniero, nonostante non parlasse italiano, non ricordasse nulla dell’Italia e vivesse secondo gli usi e i costumi cinesi. Le frequenti prese in giro da bambino lo costrinsero ad abbandonare gli studi e, quando fu combinato il suo matrimonio, si disse in giro che la futura moglie doveva essere molto coraggiosa, perché una qualsiasi altra ragazza sarebbe stata intimorita dal suo aspetto.
«Mio padre non ha vissuto una vita infelice» racconta la figlia «ma è stata difficile e in cuor suo incolpava il patrigno cinese per il dolore che ha dovuto patire» e per non averlo rimandato in Italia dopo la morte della madre. È stato questo l’innesco della sua ricerca e, quando nel 2001 riuscì a venire in Italia a conoscere la famiglia, sperava di sentirsi finalmente a casa. Sperava che trovandosi in un luogo in cui altri avevano il suo stesso naso, il suo stesso colore di pelle o di capelli, si sarebbero appiattite quelle differenze che per tutta la vita in Cina lo avevano fatto sentire uno straniero. Qui invece, si rese conto che la distanza tra lui e l’Italia era in realtà più grande di quanto avesse creduto e che le sue radici erano molto più vicine al piccolo villaggio cinese.
Xiangshun si raccontava così a una televisione cinese: «In Italia ho visto il posto in cui sono nato e mi sono commosso. Mi sentivo a casa, avevano tutti una faccia come la mia, ma mi sembrava così strano che non potevo comunicare con loro», ancora: «prima di lasciare la Cina mi sono sempre sentito italiano, ma quando sono arrivato in Italia mi sono sentito uno straniero. L’umanità dei cinesi è profonda, non mi hanno mai deluso. Inoltre, sono in Cina da così tanti anni, ogni mia goccia di sudore è stata versata in Cina. Lì ho tanti familiari che mi aiuteranno, ormai sono vecchio e ne avrò sicuramente bisogno».
Le poche, ma significative, dichiarazioni di Xiangshun dimostrano come l’approccio dei media alla questione della sua identità sia stato estremamente semplicistico. Piero Angela, in una breve introduzione al suo servizio, dice: «Sembra quasi un esperimento da laboratorio, uno di quegli esperimenti ipotetici in cui si dice “cosa succederebbe se si mettesse un neonato italiano in un villaggio cinese?”. Qui abbiamo i risultati». Angela paragona la storia di Xiangshun a un esperimento ipotetico, ma in realtà la sua domanda non necessita di alcun esperimento per ottenere una risposta. Come nel caso di Xiangshun, nelle seconde generazioni di immigrati convivono cultura d’origine e cultura d’arrivo, sfuggendo a incasellamenti univoci in questa o quest’altra cultura.
Se inizialmente Xiangshun pensava che gli sarebbe bastato tornare in Italia per sentirsi a casa, dopo il suo viaggio ha compreso come il suo concetto di “casa” fosse slegato dal semplice trovarsi circondato da facce simili alla sua. Forse ciò che cercava realmente non era trovare dei legami di sangue, ma conoscere quella parte della sua storia che gli è stata nascosta e che avrebbe contribuito a formare la sua persona. Forse se Xiangshun avesse saputo di più su come era arrivato in Cina in quell’ottobre del 1946, se avesse saputo che la storia di tutta la sua famiglia (dalla nonna, alla madre, fino ai suoi stessi figli) era strettamente legata ai viaggi, agli spostamenti, alla ricerca di opportunità di vita migliori, avrebbe sentito di meno quel vuoto che lo ha accompagnato per gran parte della sua vita.
Di Rossella Gloria De Tommaso*
*Classe 1995, è laureata con lode in Scienze della mediazione linguistica e in Scienze e tecniche della comunicazione presso l’Università degli studi dell’Insubria di Como. Nel 2018 ha trascorso un anno in Cina per studiare lingua cinese alla Liaoning Normal University di Dalian. Oggi è specialista della comunicazione e si interessa di femminismo, studi di genere e culture asiatiche.
L’articolo è tratto da un progetto di ricerca terminato nel 2022 con l’elaborazione della tesi magistrale “Alvise Giusti – Xu Xiangshun. Realtà e rappresentazioni mediatiche della vita di un italo-cinese” Relatori il Prof. Daniele Brigadoi Cologna e il Prof. Paolo Nitti.