Erede dell’antico sistema del tuntian, la Xinjiang Production and Construction Corps festeggia i suoi sessant’anni. È un’organizzazione produttiva pronta a trasformarsi in milizia, o esercito, a seconda delle esigenze. Ora, è anche protagonista nel processo di nuova urbanizzazione. Lo Xinjiang infatti, nelle intenzioni di Pechino, dovrevve diventare un grande hub economico-energetico su una rinnovata Via della Seta. Prima coltivavano la terra, adesso pompano l’urbanizzazione. Da sempre, mantengono l’ordine imperiale. Sono i contadini-operai-militari della Xinjiang shengchan jianshe bingtuan (Xinjiang Production and Construction Corps – XPCC), una particolarissima organizzazione economica e paramilitare fondata nel 1954. È unica perché riproduce l’antico sistema del tuntian: il distacco di guarnigioni autosufficienti di soldati-agricoltori nelle regioni periferiche dell’impero. Oggi, in occasione del suo sessantesimo anniversario, il governo cinese pubblica un “libro bianco” per celebrarla.
Il sistema del tuntian, che risale alla dinastia Han (206 AC-220 DC), prevedeva l’assegnazione di un lotto di terra nei territori di frontiera ai soldati smobilitati – ma sempre pronti a ri-mobilitarsi – e alle loro famiglie. Il raccolto veniva poi suddiviso equamente tra i coloni e il governo centrale. In pratica, si trattava di un’organizzazione che prendeva due o anche tre piccioni con una fava: dava lavoro a migliaia di soldati che nelle epoche di pace restavano disoccupati, stabiliva efficienti unità produttive in territori di recentissima colonizzazione e consentiva soprattutto di mantenere l’ordine. Qualcosa che nella nostra storia occidentale starebbe al crocevia tra il sistema feudale e la colonizzazione del West americano.
Ebbene, nel 1954, il sistema fu reintrodotto sotto nuova sigla – quella della XPCC appunto – e nuovo imperatore: Mao Zedong. Oggi, l’organizzazione è controllata sia dal governo centrale sia dalla regione autonoma dello Xinjiang, ne fanno parte circa 3 milioni di cinesi.
L’agiografia ufficiale dice che “nonostante un ambiente naturale aspro, i lavoratori della XPCC riuscirono a mettere radici nello Xinjiang. Recuperarono oasi ecologiche dal desolato deserto del Gobi, avviarono l’ammodernamento della regione, lanciarono l’agricoltura su ampia scala nonché imprese industriali e minerarie”. Ma non solo: “Hanno creato nuove città e villaggi cooperando con la popolazione locale di tutti i gruppi etnici. Combinando le funzioni di produzione, amministrazione, e difesa, la XPCC ha dato un contributo indelebile allo sviluppo dello Xinjiang, attraverso la promozione dell’unità tra i gruppi etnici, il mantenimento della stabilità sociale, e il rafforzamento della difesa nazionale ai confini”.
Oggi, sottolinea il “libro bianco”, la vocazione economica dell’organizzazione si esprime nella costruzione del sistema logistico dello Xinjiang che, nelle intenzioni di Pechino, deve diventare un grande hub economico-energetico sulla rinnovata Via della Seta.
Fa leva sulle sue eccellenze tradizionali, la XPCC, cioè l’agricoltura e l’industria di trasformazione. Intanto plasma quelli che dalle nostre parti sarebbero distretti industriali. Così, oggi controlla cinque zone di sviluppo economico e tecnologico di livello statale e ben 24 zone industriali. Da noi, i distretti sorgono spontaneamente dal più o meno libero interagire delle forze produttive; nel modello cinese, sono pensati, progettati e avviati dall’alto. E la XPCC mette poi il lavoro vivo all’opera.
Così facendo, ha stabilito rapporti economici e commerciali con più di 160 Paesi e regioni del mondo e nel 2013 ha raggiunto un volume dell’import-export di oltre 11 miliardi dollari (di cui, ben 10 rappresentano le esportazioni), con contratti per progetti all’estero pari a 542 milioni di dollari.
Nel crogiolo Xinjiang, scosso da tensioni, è importante capire chi fa parte di questa versione moderna del tuntian. Il “libro bianco” dice che le minoranze etniche al suo interno – cioè i cinesi non han – assommano a 375.400 persone, il 13,9 per cento del totale. Provengono da 37 gruppi etnici, di cui la XPCC ha migliorato le condizioni di vita con progetti che riguardano “infrastrutture urbane, progetti di edilizia a basso costo, aziende agricole e zootecniche”. E per dare un ulteriore incoraggiamento ai non-han, la pubblicazione sottolinea che la quarantina di aziende dove prevalgono le minoranze hanno una produttività superiore alla media. È il dispiegamento del modello cinese di ricomposizione dei conflitti: lo sviluppo economico condiviso cancellerà tutte le tensioni.
In questo quadro, un capitolo a parte merita l’urbanizzazione, cioè la leva che Pechino ha scelto per dare nuovo impulso al boom. Ebbene, nel desolato Xinjiang la XPCC avrebbe finora completato circa il 63 per cento dei compiti a lei assegnati, creando dal nulla ben sette città a livello di contea – Alar, Tiemenguan, Tumushuke, Shuanghe, Wujiaqu, Shihezi e Beitun – e cinque centri amministrativi: Jinyinchuan, Caohu, Wutong, Caijiahu e Beiquan. Sono centri che spuntano dal nulla, alcuni nel nord, vicino al capoluogo Urumqi, altri nella parte occidentale o ai margini del deserto del Taklamakan. Beitun, per esempio, che ha 76mila abitanti ed è nata nel 2011, è considerata la più giovane città cinese. A meno che nel frattempo non ne siano sorte altre.
Questa rete di centri urbani decentralizzati, economicamente organizzati e soprattutto controllati, rende perfettamente idea di cosa si intenda per chengzhenhua, termine molto in voga un paio di anni fa per definire la nuova urbanizzazione “sostenibile” cinese e ora un po’ sparito dalla circolazione: piccolo è bello, basta con le megalopoli.
Che il contesto in cui operano i lavoratori-soldati della XPCC non sia un giardino fiorito, lo rivela il fatto che il “libro bianco” sottolinea i loro meriti nella lotta contro i “tre mali” dello Xinjiang: separatismo, estremismo religioso e terrorismo. Creano “milizie, compagnie e plotoni che consentano di rispondere rapidamente agli episodi terroristici violenti”. Si fa riferimento sopratutto a tre episodi: la rivolta di Baren del 1990, di cui non c’è bilancio ufficiale, ma si parla di migliaia di morti a causa degli scontri tra uiguri che protestavano contro l’immigrazione han e forze di sicurezza; “l’incidente di Yining” (Ghulja in uiguro) del 1997, con oltre cento morti nelle proteste seguite all’esecuzione di trenta militanti uiguri; la sommossa di Urumqi del 5 luglio 2009, quanto “la XPCC mandò milizie a pattugliare la città e a sorvegliare distretti chiave contro possibili attacchi”.
Infine un vero e proprio programma per il futuro: “Allo stato attuale, la XPCC sta lavorando alla creazione di una milizia di livello avanzato, con un sistema di rotazione regolare degli effettivi che combina produzione, formazione, obblighi di leva, valutazione della performance e risposta alle emergenze”. Anche i contadini-soldato entrano nella guerra postmoderna.