Il commercio estero dello Xinjiang continua a crescere. Anzi, ha raggiunto livelli da record. Può sembrare strano, persino impossibile dopo che nel giugno 2022 è entrata in vigore la legge sulla prevenzione del lavoro forzato degli uiguri, che contrasta in modo severo le importazioni negli Stati Uniti di beni provenienti dallo Xinjiang e sospettati di essere frutto di lavoro forzato. Dall’entrata in vigore della legge, le autorità doganali degli Stati Uniti hanno trattenuto merci per un valore di quasi due miliardi di dollari, che vanno dall’elettronica e dai materiali di produzione all’abbigliamento, alle calzature e ai tessuti. Delle 982 spedizioni di moda trattenute, per un totale di quasi 43 milioni di dollari, a 556 è stato negato l’ingresso negli Stati Uniti perché non hanno fornito documenti che dimostrassero che le merci non avevano alcun legame con il lavoro forzato nella regione autonoma cinese, attenzionata ormai da diversi anni a livello internazionale per le accuse di repressione della minoranza musulmana degli uiguri che la Cina ha sempre negato. Il divieto, che ha una durata di otto anni, può avere effetti di vasta portata sulle catene di approvvigionamento globali, dato che lo Xinjiang è un centro di produzione di beni che vanno da prodotti agricoli di base, come cotone e pomodori, a materiali come la viscosa e il polisilicio.
Eppure, gli affari dello Xinjiang non ne risentono. Anzi, nei primi 10 mesi del 2023 il commercio estero della regione ha registrato un aumento del 40 per cento, che ha consentito il raggiungimento della cifra record di 409,2 miliardi di dollari. Le spedizioni da gennaio a ottobre hanno superato il valore totale del commercio nel 2022, nonostante le sanzioni imposte dai governi occidentali. Nel solo mese di ottobre, sono entrate e uscite dalla regione spedizioni per un valore di 48 miliardi di dollari, secondo i dati diffusi lunedì dalla dogana di Urumqi. L’impennata del commercio è stata alimentata in parte dalle importazioni e dalle esportazioni da e verso l’Asia centrale. Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan hanno registrato la quota maggiore delle transazioni, con macchinari ed elettronica, abbigliamento e prodotti tessili come beni più scambiati. Ma, in proporzione, gli aumenti sono più notevoli altrove. In particolare, il commercio con Malesia, Bielorussia e Vietnam ha registrato i maggiori aumenti su base annua. Da sottolineare anche la crescita sostanziosa dell’interscambio registrata con i paesi che fanno parte della Belt and Road Initiative, di cui lo scorso ottobre si è tenuto il terzo forum alla presenza, tra gli altri, del presidente russo Vladimir Putin. Il commercio dello Xinjiang con i partner della Nuova Via della Seta è cresciuto di quasi il 50%. Per avere un parametro diretto: il commercio totale di tutta la Cina con gli stessi paesi parte della Belt and Road è aumentato solo del 3,1%, oltre 16 volte in meno.
La crescita è sostenuta anche dalla diversificazione dei prodotti esportati. Al cotone e all’elettromeccanica, si sono aggiunti con sempre maggiore decisione anche le batterie al litio e le celle solari, due componenti cruciali del processo globale di transizione energetica. Nei primi nove mesi, le esportazioni dello Xinjiang di veicoli elettrici, batterie al litio e celle solari sono aumentate del 62%. Nello stesso periodo è aumentato anche il volume delle importazioni di prodotti minerali, oli e grassi, semi oleosi e alimenti. In queste settimane, sta invece destando attenzione la possibile offerta pubblica iniziale di Shein per la quotazione a Wall Street. Il colosso cinese che ha lanciato a livello globale un nuovo modello di fast fashion, ha in passato ricevuto alcune critiche per i sospetti di utilizzo di lavoro forzato degli uiguri per la produzione di abbigliamento e articoli domestici a basso prezzo. Accuse respinte dall’azienda, che ha la sede principale a Singapore, ma che alcuni deputati statunitensi hanno avanzato nuovamente di fronte alla possibile quotazione alla borsa di New York.
Nonostante le accuse dell’occidente, per motivi diversi i paesi dell’Asia centrale, i paesi arabi e in generale quelli a maggioranza musulmana chiudono da tempo un occhio sulla sorte degli uiguri. Anzi, a settembre una delegazione della Lega Araba è stata nello Xinjiang, approvando la gestione cinese, che secondo il Partito comunista garantisce la stabilità interna dopo i problemi di sicurezza causati dai gruppi separatisti negli anni passati. Dopo aver ospitato l’accordo per la ripresa dei rapporti diplomatici tra Arabia Saudita e Iran, ottenendone poi l’ingresso nei Brics, la Cina si erge d’altronde a portavoce dei paesi arabi e islamici sulla questione palestinese. Il crescente ascendente diplomatico, che si somma a quello commerciale, favorisce il placet al processo di “sinizzazione” in corso nello Xinjiang e non solo.
Un processo nel quale il controllo sociale e la “normalizzazione” culturale sono accompagnati da investimenti e sviluppo economico, come accaduto in Tibet. Non a caso, a fine ottobre il governo cinese ha presentato i piani per lo sviluppo di una zona di libero scambio nello Xinjiang, rendendola snodo cruciale della Belt and Road. Il piano propone di concedere ai funzionari dello Xinjiang una maggiore autonomia nell’attuazione di politiche volte ad attrarre investitori stranieri dai paesi limitrofi, tutti membri dell’ambizioso progetto cinese di far rivivere l’antica Via della Seta. Saranno avviati dapprima dei progetti pilota a Kashgar, Khorgos e Urumqi, per poi arrivare all’istituzione ufficiale della zona di libero scambio in tutta la regione entro la fine del decennio.
In questo contesto si inserisce l’avvio dei lavori per la costruzione di un tunnel autostradale che favorirà gli scambi tra Xinjiang e Asia centrale. Secondo il piano, si tratterà del tunnel autostradale più lungo del mondo, con 22,1 chilometri di tracciato. Una volta aperto al traffico, entro la fine di ottobre 2025, ridurrà il tempo di percorrenza attraverso le montagne Tianshan a circa 20 minuti e il viaggio dalla capitale Urumqi a Korla, le due città più popolose della regione, sarà ridotto da oltre sette ore a circa tre ore. Tutto è funzionale, come accaduto in Tibet, a migliorare condizioni economiche interne e connettività regionale di uno Xinjiang sempre più sotto il controllo centrale. Facendo progressivamente spegnere l’attenzione internazionale sulla sorte degli uiguri.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su Gariwo]Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.