Il cuore dell’Eurasia è un’introduzione alla storia dello Xinjiang, dalla preistoria fino al 1949, anno dell’istituzione della Repubblica Popolare Cinese. Si vuole sottolineare il ruolo strategico della regione, oggi estremo confine occidentale della Cina e tradizionalmente uno dei principali snodi lungo la via della seta. China Files ve ne regala alcune pagine (per gentile concessione della casa editrice Mimesis). Kashgar ed Urumqi rappresentano, se vogliamo, i due volti del Xinjiang odierno. Le due città distano circa 24 ore di treno, e benché appartengano alla stessa regione sembrano avere ben poco in comune. Urumqi è una città cinese a tutti gli effetti. Il suo aspetto, con moderni grattacieli e centri commerciali, ricalca quello di altre centinaia di città cinesi, mentre la sua popolazione è quasi interamente Han (76%, contro un modesto 12% di Uiguri). La città ha subìto uno sviluppo edilizio impressionante negli ultimi anni, e con i suoi due milioni di abitanti non solo rappresenta uno dei centri più importanti della Cina occidentale, ma dell’intera Asia centrale. A Kashgar, al contrario, le percentuali sono rovesciate, mentre lo sviluppo e le ricchezze del capoluogo tardano ad arrivare. Per quanto la popolazione Han sia – come peraltro nel resto della regione – in costante aumento, gli Uiguri qui sono ancora la netta maggioranza. Kashgar, tuttavia, è una città da molti considerata sotto minaccia.
Il suo centro storico rappresenta infatti, stando a George Michell et alii (2008, p. 79), “l’esempio meglio preservato di città islamica tradizionale che si possa trovare in Asia centrale”. Ebbene, secondo un piano del governo regionale, entro i prossimi dieci anni la quasi totalità della città vecchia verrà distrutta e ricostruita, con l’intenzione di prevenire eventuali scosse sismiche dalle conseguenze disastrose, come è avvenuto nel maggio del 2008 nella provincia del Sichuan. Secondo molti si tratterebbe di un pretesto, laddove la reale intenzione del governo di Pechino sarebbe quella di privare il popolo uiguro di uno dei simboli della sua identità. Nello stesso modo vengono spesso interpretate le politiche di Pechino – talvolta definite assimilazioniste in materia di educazione, soprattutto in riferimento al ruolo sempre più importante che il mandarino va assumendo nella vita pubblica della regione. Comunque stiano le cose, nel giro di pochi anni, uno dei luoghi più affascinanti che si possano oggi visitare all’interno dei confini cinesi, non esisterà più.
Uno dei principali motivi di recriminazione da parte degli Uiguri è, come abbiamo visto, la mole crescente di migranti Han in regione – da alcuni, non a caso, definita una vera e propria colonizzazione. Gli Uiguri lamentano soprattutto il fatto che agli Han siano riservati i posti ed i salari migliori, mentre per loro non esisterebbero buone opportunità lavorative. Un taxista uiguro ad Urumqi si lamentava con me del fatto che, nonostante una laurea in ingegneria ed un’ottima conoscenza del mandarino, non fosse in grado di trovare alcun lavoro – se non, appunto, quello di taxista -, e coltivava così come molti suoi coetanei il sogno di andare all’estero, perché, letteralmente, “non c’è futuro per noi Uiguri qui in Xinjiang”. Secondo molti Uiguri infatti, i frutti della rapida crescita economica di cui il Xinjiang, come del resto l’intera RPC, ha potuto godere negli ultimi due decenni, hanno finito per favorire quasi esclusivamente questi nuovi arrivati, lasciando buona parte degli Uiguri, in particolare coloro i quali abitano ancora nelle campagne, nella medesima condizione di povertà. Sebbene dunque investimenti e sviluppo siano arrivati in Xinjiang, molti Uiguri non riescono a trovare nei moderni grattacieli di Urumqi alcun motivo di orgoglio nazionale, vedendovi piuttosto il simbolo di un umiliante dominio straniero.
Le radici dello scontro sono dunque diverse e numerose: etniche, economiche, geopolitiche, strategiche, e religiose. Ragioni che sembrano infine ritornare continuamente alla storia delle rispettive etnie e civiltà, o meglio, alle letture affatto particolari che i due gruppi sembrano offrire di questa storia (Bovingdon, 2001; Bovingdon & Tursun, 2004; Rippa, 2014). La versione ufficiale del governo cinese, fatta propria da pressoché ogni cinese Han che io abbia incontrato, vuole che il Xinjiang sia, da oltre 2000 anni, parte integrante dell’impero cinese prima, e della Repubblica Popolare poi. Gli Uiguri sono invece convinti, al contrario, che il dominio cinese sul Xinjiang sia frutto di avvenimenti recenti, e si considerano gli unici abitanti autoctoni di questa terra. Oggi il Xinjiang è, ufficialmente, una regione “autonoma” della RPC, ma molti Uiguri, che si sentono “musulmani” o anche “turchi” prima che “cinesi”, non sembrano credere a questa autonomia, ritenendo che il governo ignori fin troppo spesso le loro necessità, e che in ultima istanza lavori intenzionalmente contro di esse.
Esistono tuttavia molte sfumature che andrebbero prese in considerazione. Ad Urumqi sta crescendo anche una generazione di giovani Uiguri benestanti, meno rispettosi delle usanze dei padri ed attratti da un modello di vita più spiccatamente “occidentale”. Tra questi, l’opinione più diffusa è che, sebbene non vi sia apprezzamento per i cinesi e per i loro atteggiamenti spesso considerati arroganti, il Xinjiang abbia in fondo tutto da guadagnare dall’appartenenza alla RPC. Questo esempio, come molti altri che si potrebbero portare, lascia forse aperta una certa speranza affinché avvenimenti come quelli del luglio 2009 non si ripetano più.
Un primo passo, da compiersi da entrambe le parti, potrebbe essere quello di aprire una seria riflessione sulla storia della regione. In questo modo sarebbe possibile comprendere – e questo è ciò che si è in parte tentato di mostrare con questo lavoro – come nessuno sia in grado di poter vantare una qualche forma di esclusività all’interno dei rapporti di potere nel corso dei quasi tre millenni di storia della regione. Non i Cinesi – i quali tuttavia hanno sempre esercitato una certa influenza all’intero degli affari del Xinjiang -, non gli Uiguri – che possono considerarsi gli abitanti autoctoni, ma che allo stesso tempo hanno sviluppato solo recentemente un qualche senso d’identità, ed allo stesso modo nessun altro popolo che si sia affacciato in regione nel corso dei secoli. Il Xinjiang ha avuto insomma una storia plurale e stratificata, e proprio questa sua caratteristica dovrebbe rappresentarne oggi il motivo di vanto principale, e non una causa di timore per una colpa da censurarsi. Se di ciò saranno in grado di rendersi conto tanto a Pechino quanto tra i gruppi uiguri, allora una vera riconciliazione ed un futuro migliore per questa terra saranno davvero possibili. In caso contrario, proteste, incidenti e ulteriori bagni di sangue saranno l’inevitabile destino di una regione che non sembra ancora in grado di metabolizzare pienamente il proprio passato.
*Alessandro Rippa è postdoc presso l’università Ludwig-Maximilian di Monaco di Baviera, affiliato al progetto “Remoteness and Connectivity: Highland Asia in the World” finanziato dal consiglio Europeo della ricerca. Alessandro ha ottenuto il dottorato in antropologia presso l’università di Aberdeen, ha vissuto in Cina per diversi anni e condotto ricerca etnografica in Xinjiang e Pakistan tra il 2009 e il 2013.