Nelle indagini sulla strage di Kunming, le autorità cinesi seguono la pista del separatismo etnico. Non sarebbe la prima volta che le tensioni in Xinjiang si traducono in carneficine all’arma bianca, ma finora erano rimaste localizzate nella grande regione autonoma della Cina occidentale. Adesso, il grande salto di qualità, con l’esportazione della strage fuori dai confini regionali; anche se un’avvisaglia si era già avuta con l’attacco in piazza Tian’anmen del 28 ottobre.
Nei mesi scorsi siamo siamo stati in Xinjiang. Ne è scaturito questo reportage, uscito a gennaio. Ping’an Jiating, casa – o anche famiglia – sicura, pacifica. Chissà se anche quella di Usmen Hasan aveva affisso sulla propria porta l’adesivo rosso che i comitati di quartiere di Urumqi donano ai nuclei familiari che “si comportano bene”.
TIAN’ANMEN 28 OTTOBRE 2013
Quando il 28 ottobre una Jeep bianca è andata a schiantarsi sotto il ritratto di Mao Zedong in piazza Tian’anmen, il mondo ha improvvisamente scoperto lo Xinjiang: l’irrequieto “Far West” della Cina. Due giorni dopo la folle corsa di quattrocento metri, che si era lasciata dietro cinque morti (tra cui i presunti attentatori) e quaranta feriti, le autorità di Pechino hanno messo il sigillo ufficiale sulla “pista uigura”, comunicando i nome dei tre a bordo dell’auto: proprio lui, Usmen Hasan, con sua moglie Gulkiz Gini e l’anziana madre Kuwanhan Reyim, tutti inceneriti nel rogo della Jeep che – secondo la polizia della capitale – avevano riempito di taniche di benzina, coltelli, spranghe di ferro e una bandiera “con slogan religiosi”.
La famiglia apparteneva all’etnia turcofona e musulmana dello Xinjiang, gli uiguri. Discendenti da tribù nomadi provenienti dall’attuale Mongolia, sospinti a sud-ovest dalla pressione di altri popoli delle steppe, loro stessi prodotto del melting pot asiatico, sono divenuti sedentari nel corso dei secoli insediandosi nel bacino del Tarim, l’enorme area all’estremo occidente del Celeste Impero che è oggi regione autonoma: loro la chiamano “Turkestan Orientale”, per la Cina è, appunto, lo Xinjiang. Estranei alla cultura han – cioè dei cinesi maggioritari, per come li conosciamo noi – rivelano da tempo un malessere che viene spesso spiegato ricorrendo alle categorie dell’integralismo religioso o del conflitto etnico.
Hanno nomi uiguri anche le cinque persone (tre uomini e due donne) “collegate con l’attacco terroristico” e arrestate nello ore successive allo schianto della Jeep.
Funzionari cinesi hanno in seguito esplicitamente accusato l’Etim, il Movimento Islamico del Turkestan Orientale (un’organizzazione di cui non si conosce la reale consistenza), di essere l’ispiratore dell’attentato.
Ma già prima che il problema arrivasse nel cuore simbolico della Cina, diversi “incidenti” (leggi “scontri tra le forze di sicurezza e uiguri più o meno militanti”), avevano nell’ultimo anno lasciato decine di morti e feriti sul suolo dello stesso Xinjiang.
La memoria torna quindi alla rivolta di Urumqi del 5 luglio 2009: 197 morti e 1.721 feriti secondo fonti ufficiali. Va detto che finora si è sempre trattato di scontri a bassa componente militare; truculenti proprio perché più simili allo scannatoio realizzato con coltelli, mannaie e spranghe, che ad attacchi con ampio sostegno di armi da fuoco o esplosivi.
Tuttavia, secondo il governo cinese, gli “incidenti” hanno senz’altro matrice separatista, sono preorganizzati e collegati alla Jihad globale. Pechino non fornisce molte prove a sostegno di tali affermazioni, ma c’è consenso tra gli osservatori nel ritenere che alcune frange estreme dell’indipendentismo uiguro cooperino con altri gruppi combattenti dell’Asia centrale, trovando spesso riparo nelle aree tribali del Pakistan nord-occidentale.
Quello di piazza Tian’anmen è stato comunque un gesto eclatante, a metà tra l’autoimmolazione dei tibetani e l’autobomba dei fondamentalisti islamici. A Pechino, un’amica han – l’etnia maggioritaria in Cina – dice: “Ho paura a passare per piazza Tian’anmen”. Mentre su Weibo, il più importante social network cinese, circolano messaggi di questo tenore: “È la prima volta che capito così vicino a un attacco terroristico”. Oppure: “Possono davvero fare questo in Tian’anmen? Mi sento improvvisamente angosciato, come si fa a prevenire questi attacchi in futuro? Ispezioni dei veicoli?”
È proprio l’effetto panico voluto da eventuali “terroristi”.
LATI OSCURI
Restano però parecchi punti oscuri nella versione ufficiale e diversi media occidentali l’hanno da subito messa in dubbio. A differenza, va detto per inciso, di quanto fecero in occasione dell’attacco alle torri gemelle di New York: spesso per noi è “terrorismo” solo ciò che avviene a ovest degli Urali. Comunque sia, si tende a sostenere che, qualsiasi cosa sia accaduta in piazza Tian’anmen, le sue ragioni vadano ricercate nella dura repressione che Pechino compie da anni sugli uiguri. E poi – si dice – possibile che una famigliola si faccia indisturbata le migliaia di chilometri che separano lo Xinjiang da piazza Tian’anmen a bordo di una Jeep con targa della propria terra d’origine? C’è puzza di depistaggio o di strategia della tensione “secondo caratteristiche cinesi” (a che pro? Non si sa).
Altri osservatori hanno invece ritenuto plausibile l’atto terroristico “fai da te” compiuto da una famiglia votata al martirio, citando Inspire, il magazine online del jihadismo globale, che nel suo secondo numero mette a disposizione una semplice guida per trasformare un pick-up in un’arma micidiale [pag. 54]: “La location ideale è un luogo dove ci sono il maggior numero di pedoni e il minor numero di veicoli. In realtà, potreste scegliere i camminamenti pedonali che esistono in alcuni centri città, il che sarebbe favoloso”.
Uno stile vezzoso per la descrizione perfetta di quanto accaduto in piazza Tian’anmen. Almeno apparentemente.
Fatto sta che il mondo ha scoperto lo Xinjiang attraverso il suo volto peggiore e la domanda che ricorre è: al-Qaeda è arrivata in Cina? È in corso un salto di qualità nelle tensioni che percorrono l’estremo occidente cinese?
La sclerotizzazione del discorso porta inevitabilmente al circolo vizioso terrorismo-repressione, in una regione che vive già sulla propria pelle una progressiva, soffocante militarizzazione; in paradossale contrasto con la totale libertà di movimento e le sempre maggiori aperture di cui beneficiano le grandi città della Cina orientale.
L’attentato ha fatto proprio questo: portare un po’ di Xinjiang a Pechino. Con il clima che laggiù si respira.
E allora bisogna forse provare a raccontare la complessa realtà di quella terra, dove siamo stati pochi giorni prima che il denso fumo nero di una Jeep in fiamme oscurasse il volto di Mao Zedong.
TURPAN. XINJIANG
Sull’autostrada tra Urumqi e Turpan, il “grande sogno cinese”, slogan lanciato del presidente Xi Jinping, sembra dispiegato in tutta la sua potenza.
In un incredibile paesaggio lunare, le gigantesche turbine eoliche si susseguono in file parallele per chilometri e chilometri, come un futuristico esercito di terracotta in marcia verso il futuro. Rappresentano la componente ambientale del “sogno”: costruire una economia sostenibile. Lo Xinjiang deve diventare, nelle intenzioni di Pechino, un hub energetico, commerciale, tecnologico, la porta spalancata sulla moderna Via della Seta.
A Turpan, è in costruzione una “Ecocity” nuova di zecca proprio di fianco alla preesistente città da 250mila abitanti, già antica oasi che costeggiava il deserto del Taklamakan.
È un perfetto esempio per descrivere ciò che la leadership cinese intende per chengzhenhua , la nuova urbanizzazione “sostenibile” che segnerà il futuro del Dragone. Ma è anche la metafora che utilizzeremo per descrivere la questione uigura. Che è un problema di uguaglianza nella diversità, come ci ha spiegato Wang Hui, intellettuale della “nuova sinistra” cinese: “Da un lato è perfettamente legittimo voler migliorare la situazione economica, ma attualmente c’è una crisi ecologica che va di pari passo con una crisi culturale, perché lo stile di vita di quella gente sta cambiando, e così abbiamo i conflitti in Xinjiang e Tibet”. Si tratta dunque di “rispettare la singolarità, la diversità, le differenze senza rifiutare l’idea di base di uguaglianza”, continua il professore dell’Università dello Xinjiang.
Torniamo alla ecocity di Turpan. I pannelli solari sovrastano centinaia di villette a schiera già costruite, mentre le strutture dei futuri palazzi governativi sono già ben visibili. Questa città sostenibile occuperà una superficie di 8,8 chilometri quadrati, darà alloggio a circa 60mila persone e sarà completata entro il 2020. C’è da crederci.
“Verrà alimentata da pompe geotermiche e pannelli solari – ci dice un ingegnere uiguro coinvolto nel progetto – è previsto il trasporto pubblico esclusivamente elettrico, mentre gli autoveicoli privati saranno deviati in grandi parcheggi”.
Eppure il “sogno” non è per tutti.
C’è per esempio la piccola storia di un giovane ingegnere civile e project manager, che ci è stata raccontata da fonti che preferiscono mantenere l’anonimato. Di etnia uigura, appena laureato, qualche anno fa, fece domanda per un buon lavoro in una compagnia di Stato a Urumqi, casa sua. Ma fu respinto, perché il responsabile delle risorse umane gli disse che non avevano in programma di assumere uiguri. Il giovane se ne andò quindi a Pechino, dove trovò lavoro in una delle più grandi società di ingegneria della Cina. Ironia della sorte, fu successivamente inviato a Urumqi per un grande progetto e, una volta lì, incontrò lo stesso funzionario che l’aveva respinto diversi anni prima. Durante una cena formale con il gruppo di Pechino, tra cui il giovane ingegnere, il funzionario locale chiese: “Perché i giovani di talento dello Xinjiang non contribuiscono mai allo sviluppo della propria terra?”
È una storia piuttosto comune in questa enorme fetta di Cina che è già Asia Centrale.
Ma potrebbe trattarsi semplicemente di casi, ragazzi sfortunati. Raccontando queste storie a conoscenti han, ci si sente rispondere: “L’esempio di un ufficiale incapace non fa testo e tieni presente che la maggior parte dei funzionari, nello Xinjiang, è non-han. Anzi, il fatto che ci siano uiguri istruiti e che trovano lavoro dimostra proprio che le politiche di Pechino sono giuste. Il governo tutela giustamente le minoranze, proprio perché altrimenti le schiacceremmo numericamente. Così, per esempio, gli uiguri possono a differenza nostra avere più figli, sottraendosi al controllo delle nascite. Inoltre hanno la libertà di festeggiare le proprie ricorrenze religiose. Cosa vogliono di più?”
Saranno dunque i nuovi grandi progetti energetici, tecnologici, le “grandi opere” secondo caratteristiche cinesi (che qui sono grandi davvero) e l’apertura all’Asia Centrale a guidare il popolo dello Xinjiang verso un futuro di opportunità, verso il sogno cinese? Non è facile rispondere. Hesmat (nome fittizio), un altro architetto uiguro che se ne è andato dalla sua terra ma che un giorno vorrebbe tornarci, la vede così: “C’è il rischio enorme che questo sia un mianzi gongcheng – un progetto “della faccia” (o di facciata) – mentre una crescita sostenibile dello Xinjiang significa recuperare e ristrutturare le vecchie città, dare opportunità alla popolazione locale. Questo deve venire prima o in parallelo alla costruzione di nuove grandi opere. Ma non se ne vede l’ombra”.
Per molti han, invece, gli uiguri non fanno che lamentarsi e il problema, se mai, è di educazione. “Le difficoltà sono date dalla disparità tra la moderna Urumqi e la parte sud dello Xinjiang che resta arretrata – ci dice un businessman che opera tra la Cina e il Canada – ma mano a mano sarà risolta grazie allo sviluppo, ai gasdotti e agli oleodotti, che porteranno soldi anche lì. Tuttavia, per ora il processo è ancora lento. Per esempio, i testi scolastici in uiguro arrivano solo fino alle scuole elementari. Così i separatisti si fanno strada con i loro sermoni”.
Quello della lingua è un bel problema. Da una parte, dato che tutta l’economia della madrepatria ruota attorno agli affari in lingua cinese, le autorità sostengono che le minoranze debbano prima e soprattutto imparare il mandarino, se vogliono trovare il proprio posto nel mercato del lavoro. D’altra parte, molti uiguri trovano umiliante vedere la propria lingua relegata al ruolo di dialetto locale, con il rischio che scompaia nel giro di qualche generazione.
Ed ecco un’altra storia che ci ha raccontato Hesmat.
“Cinque anni fa, una giovane donna uigura mia amica ha concluso un dottorato di ricerca in fisica teorica presso una prestigiosa università giapponese. Tuttavia, le è stato in seguito negato un lavoro all’Università dello Xinjiang perché avrebbe dovuto passare l’HSK (Hanyu Shuiping Kaoshi, l’esame di competenza linguistica certificata in mandarino), anche se in realtà lei è ufficialmente cittadina cinese e parla perfettamente la lingua. Delusa e mortificata, se ne è andata a Guangzhou, dove ha iniziato a vendere vestiti a buon mercato. Ora è milionaria, ma non restituisce nulla del proprio talento alla sua terra”.
IL MODELLO UNICO
Il problema è così sintetizzabile: la Cina funziona da sempre per progetti che piovono dall’alto, sulla base di un modello di sviluppo che appare vincente. Oggi, stiamo assistendo alla transizione dal vecchio modello Deng – basato sulle manifatture votate all’export – a quello che l’attuale leadership vuole imporre: più qualità, più tecnologia, più istruzione. Il sorgere di decine di nuove città “tecnologiche” in tutta la Cina corrisponde a questo grande sforzo. Lì, dovranno inurbarsi i contadini che sono rimasti ancora indietro sulla scala del progresso, per evitare che migrino disordinatamente come è successo finora, intasando le megalopoli già sature.
Ma è comunque un modello dall’alto in basso: può adattarsi alla diversità dei luoghi è delle genti, in una Cina sempre più complessa e percorsa da culture così distanti tra loro?
Secondo il businessman han “è sempre meglio provarci che lasciare tutto così com’è. Il governo cerca di educare questa gente – aggiunge – ma i vecchi non ne vogliono sapere; anche i funzionari uiguri ci provano, ma non è facile, quelli non vogliono stare al passo con il mondo”.
E poi c’è l’inevitabile stoccata a chi eserciti qualsivoglia critica: “Voi occidentali non prendete mai in considerazione le immense difficoltà che si incontrano nel gestire l’immensa popolazione della Cina, soprattutto dopo l’abietta occupazione coloniale, i massacri giapponesi, la guerra civile, la guerra di Corea e la follia delle guardie rosse”. E così via, nella riproposizione circolare della storia patria.
Eppure non è solo un problema di vecchi che non ne vogliono sapere. Ma di scelte fatte oggi, che possono però ipotecare il futuro.
Prendiamo la scarsità d’acqua. In questa terra desertica, l’uomo ha risolto il problema da tempo immemore con quello stupefacente miracolo di antica tecnologia che risponde al nome di karez: canali sotterranei che portano l’acqua dai lontani monti Tianshan sfruttando la pendenza naturale (la depressione di Turpan è il terzo luogo più basso della terra). Ma questo delicato ecosistema saprà sopportare l’impatto di una nuova città da 60mila abitanti?
Secondo l’ingegnere uiguro, la città di nuova costruzione “è progettata per funzionare in modo relativamente indipendente dalla città esistente e le principali fonti di approvvigionamento idrico saranno diverse da quelle che riforniscono la città esistente”. Tuttavia, “l’acqua potrebbe essere occasionalmente presa dalla riserva della Valle dell’uva”, cioè il bacino idrico che rifornisce la grande area ricoperta di vigneti, che rende Turfan una delle capitali cinesi della frutta.
La nuova ecocity risolverà i problemi o ne creerà di nuovi? Che futuro avrà la Valle dell’uva, elemento imprescindibile non solo per l’economia, ma anche per la civiltà di questa zona?
Una voce si rincorre incontrollata: “Il governo prevede di trasformare la Valle in un enorme scenic spot per turisti – ci dice un uiguro la cui famiglia ha una fattoria proprio lì – gli attuali residenti saranno incoraggiati a lasciare le proprie case per andare nella nuova città”.
Leggende metropolitane? Forse, ma oltre a far crescere la diffidenza nei confronti di Pechino, la voce crea già effetti molto materiali: “Un giorno, vorrei tornare in questa fattoria e continuare il lavoro di mio padre e di mio nonno – ci dice Tömür (nome fittizio), che fa l’operatore sociale a Urumqi – ma proprio il mio vecchio non vuole lasciarmela in eredità. Vuole vendere tutto”.
Intorno a noi, i filari delle vigne circondati da alberi di datteri, l’uva passa esposta a essiccare e il recinto con le tipiche pecore dello Xinjiang; quelle dotate di quella buffa riserva di grasso sotto la coda che rende gli spiedini così gustosi.
Non possiamo verificare a oggi se questa grande opera sarà anche ingegneria sociale oltre che civile, ma c’è da chiedersi se un eventuale svuotamento della Valle dell’uva per trasferire la popolazione locale nella nuova ecocity, darà luogo a un melting pot felice o sarà invece una nuova fonte di conflitto.
A ogni modo, è percepibile il rischio che l’ecosistema Xinjiang possa essere ulteriormente sconvolto da enormi progetti top-down destinati a fare di questa terra un trampolino di lancio per l’Asia centrale.
Sia inteso: lo Xinjiang ha bisogno di progresso. Degli 1,5 milioni di bambini di strada che percorrono le città cinesi, rubando, prostituendosi, vivendo alla giornata, si calcola che almeno 100mila siano originari della grande regione autonoma: sono quasi tutti uiguri e vengono da famiglie povere. La loro condizione è resa peggiore dall’essere vittime designate di due culture: quella musulmana, per cui rubare è peccato; quella han, che li disprezza rinnovando il mito dell’uiguro-delinquente. Così, quando vengono raccolti e rispediti a casa nell’ambito dei programmi di recupero del governo, finiscono spesso per tornare sulla strada in quanto rifiutati dalle loro stesse famiglie. Emarginati per sempre.
C’è bisogno dunque di più ricchezza condivisa e di sviluppo. Ma qual è, in definitiva, il prezzo del progresso?
In un contesto del genere, l’Islam radicale diventa una strategia di sopravvivenza molto efficiente e flessibile. Altro che un virus d’importazione. Perché offre sia una cornice morale a chi lotta quotidianamente per una vita migliore e nutre speranze di successo, sia una zona di comfort a chi è lasciato indietro.
L’architetto Hesmat, che un giorno vorrebbe tornare qui e aprire un proprio studio, riconosce che “il fondamentalismo si sta allargando”. Qualche tempo fa era un giovane secolarizzato, non immune da qualche serata alcolica durante i propri anni da studente. Oggi rispetta i dettami del Corano senza strafare, studia e lavora: “Per sentirmi pulito”, spiega. Lui riesce ancora a mantenere il proprio equilibrio, tenendosi aggrappato al “sogno cinese”.
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L’IMPORTANZA STRATEGICA DELLO XINJIANG
A settembre 2013, il presidente cinese Xi Jinping ha completato un tour di dieci giorni in Asia centrale, con tappe in Turkmenistan, Kazakistan, Uzbekistan e Kirghizistan, al G-20 di San Pietroburgo e al summit della Shanghai Cooperation Organization di Bishkek.
In Turkmenistan, Xi ha inaugurato un giacimento di gas naturale; in Kazakistan ha promesso 30 miliardi di dollari in progetti energetici e infrastrutturali. In Uzbekistan e Kirghizistan, ha fatto promesse simili. In tutti i Paesi visitati, il presidente cinese ha cercato di dare solidità ai rapporti bilaterali: investimenti e sostegno finanziario che arrivano dal grande portafoglio del Dragone, in cambio di una sempre maggiore cooperazione sul piano diplomatico, della sicurezza regionale e delle politiche energetiche.
La Cina che ha appena concluso il terzo plenum del Partito comunista, spinge sull’acceleratore delle riforme economiche e sociali. Bisogna trasferire ricchezza alle famiglie, creare il nuovo ceto medio e continuare quindi sulla strada dello “sviluppo pacifico”. Per farlo, sono necessari sia buoni rapporti con i Paesi confinanti, sia una rete efficiente e sicura di rifornimenti energetici. Così, i flussi transfrontalieri si intensificano in tutta l’area centro-asiatica: ci sono le strade (il corridoio Kashgar-Gwadar, dalla Cina al Pakistan ma anche un reticolo viario in costruzione più a nord, nelle repubbliche centro-asiatiche); c’è la ferrovia (il 17 luglio è stata inaugurata la linea diretta da Zhengzhou, capitale della provincia dell’Henan, ad Amburgo); ci sono soprattutto oleodotti e gasdotti, come quello dell’Asia Centrale, che collega il giacimento turkmeno di Galkynysh allo Xinjiang.
Per dare un’idea dell’importanza strategica di questa nuova “Via della Seta” multiforme, basti pensare che un eventuale prolungamento dal porto pakistano di Gwadar allo Xinjiang del gasdotto Iran-Pakistan – un progetto sempre più probabile – consentirebbe alla Cina di utilizzare lo scalo sul Mare Arabico per trasportare via terra il petrolio che arriva dallo stretto di Hormuz, risparmiando così tempo rispetto alla rotta via mare e guadagnandoci anche in sicurezza (non ci sarebbe più da pattugliare l’Oceano Indiano).
Ecco quindi l’importanza di quella che ad Astana, capitale kazaka, Xi Jinping ha definito “cintura economica della Via della Seta” che, lo sappiamo bene, anche in antichità era più un reticolo di strade che una sola. Proprio come oggi. E che, proprio come oggi, converge inevitabilmente sullo Xinjiang.
GLI UIGURI, LA CINA E L’ISLAM
La popolazione uigura dello Xinjiang (circa 9 milioni di persone) è in maggioranza musulmana sunnita. Sulla montagne del Pamir esistono comunità kazake sciite, mentre l’immigrazione Han ha riportato nel territorio il buddhismo, presente anche in un’antichità di cui resta traccia nelle numerose grotte affrescate.
La costituzione cinese garantisce la libertà di religione e, benché laica, non è necessariamente in contraddizione con i precetti che garantiscono una condotta islamica (maqasid al-Shariah). Un buon musulmano deve obbedire al sovrano, anche se questi non professa la stessa fede, e gli sono preclusi atti di ribellione: tutti precetti che si sposano perfettamente con le politiche e i codici legali di Pechino. Esplicita è la condanna dell’hiraba, che molti studiosi associano al terrorismo.
Più contrastato è il tema del controllo familiare. Nell’applicazione della “legge del figlio unico”, la Cina si è dimostrata piuttosto rispettosa dei diritti delle minoranze e le coppie uigure possono avere due figli se residenti in città e tre se vivono invece nelle aree rurali. In teoria non è ancora abbastanza per la tradizione delle grandi famiglie patriarcali locali, ma è un ottimo compromesso. È invece un problema irrisolto quello dei matrimoni con i cinesi han, legali per lo Stato, visto che per gli uiguri significherebbe quasi sicuramente interrompere la linea familiare e religiosa: la cultura della Cina “maggioritaria” è più globalizzata e accattivante per i giovani figli di coppie miste.
Controverso è anche il tema dell’educazione all’Islam, visto che la costituzione cinese prevede che a nessun cittadino della Repubblica Popolare possa essere imposto un credo religioso prima che diventi maggiorenne, mentre non esistono invece limitazioni d’età per promuovere l’ateismo.
Suscitano però più tensioni le misure di controllo via via più rigide sulle pratiche religiose, dovute soprattutto al timore di infiltrazione fondamentalista. Tra queste, il divieto di finanziare direttamente istituzioni religiose, leggi moschee.
L’articolo 36 della costituzione prevede che nessun individuo possa svolgere pratiche “che nuociono alla salute dei cittadini”, scontrandosi così, spesso, con il digiuno durante il ramadan. Una clausola dello stesso articolo vieta inoltre le pratiche “che disturbano l’ordine pubblico”, lasciando molta discrezionalità ai funzionari chiamati ad applicarla: può anche significare il divieto di indossare il velo islamico in pubblico.
Come dappertutto in Cina, gli Imam sono dipendenti pubblici tenuti a formarsi presso istituzioni religiose di Stato. Per lo Xinjiang, si tratta dell’Istituto per lo Studio dei testi Islamici di Urumqi, dove è obbligatorio seguire anche corsi di “marxismo e religione” e sul “pensiero di Deng Xiaoping”, cosa che spinge diversi religiosi a formarsi e a operare clandestinamente, svolgendo spesso anche il ruolo di qadis, giudice islamico: cosa assolutamente vietata dalle leggi cinesi.