La comunità internazionale ha condannato le detenzioni extragiudiziali nello Xinjiang in un primo sforzo congiunto contro le politiche etniche attuate da Pechino nella regione autonoma dell’estremo Occidente cinese, dove oltre la metà della popolazione appartiene a minoranze di religione islamica.
In una lettera aperta indirizzata al presidente del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite Coly Seck e all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet, gli ambasciatori di 22 paesi hanno espresso preoccupazione per le “detenzione su larga scala, oltre alla sorveglianza e le restrizioni diffuse”, invitando la Cina a “tenere fede alle proprie leggi nazionali e agli obblighi internazionali”, nonché a “rispettare i diritti umani e le libertà fondamentali”. Pechino ha risposto definendo le accuse “una calunnia” e un’interferenza nei propri affari interni.
Le critiche contengono riferimenti espliciti all’istituzione dei cosiddetti “centri per la rieducazione”, strutture fortificate – con tanto di torri di guardia, telecamere di sorveglianza e personale di sicurezza – che testimonianze dirette e studi indipendenti sostengono siano dei veri e propri lager, contraddicendo le rassicurazioni delle autorità comuniste secondo le quali si tratterebbe di “scuole professionali” volte a riabilitare socialmente gli elementi esposti al radicalismo islamico. A sostegno della propria tesi, Pechino ricorda ormai sistematicamente come, dopo le violenze registrate tra il 2009 e il 2014, grazie alle politiche locali sono circa tre anni che la regione confinante con Afghanistan e Pakistan vive pacificamente.
Secondo il ricercatore tedesco Adria Zenz, che per primo ha analizzato dettagliatamente il fenomeno, 1,5 milioni di persone si trovano rinchiuse (senza processo) nei campi dello Xinjiang, di cui la maggior parte appartenente all’etnia uigura, minoranza musulmana di origini centroasiatiche ben distante dal ceppo maggioritario han quanto ad usi e costumi. Ma non mancano detenuti di origini kazake, kirghise, uzbeke e perfino tartare.
Da quando il sistema della “rieducazione” è stato introdotto nel 2017, solo pochi governi stranieri hanno sollevare la questione pubblicamente per paura di inimicarsi l’importante partner commerciale. Il silenzio è tanto più assordante se si considera il numero consistente di paesi a maggioranza musulmana coinvolti se non direttamente almeno indirettamente in quanto membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica. Proprio di recente la Turchia, una delle nazioni più critiche nei confronti della persecuzione cinese, ha stemperato i propri I toni in occasione dell’ultima visita di Erdogan in Cina.
Mentre il documento – presentato a due giorni dal termine della 41ª sessione del Consiglio – non ha il peso di una risoluzione o di un comunicato congiunto, ad oggi costituisce un inedito passo avanti. Apprezzando l’iniziativa, Human Right Watch ha sottolineato come si tratti di un gesto “importante non solo per la popolazione dello Xinjiang, ma anche per tutte quelle persone del mondo che dipendono dal principale ente per la difesa dei diritti umani nel fronteggiare i paesi più potenti.” Nel 2016, anno a cui risale l’ultima dichiarazione congiunta sulla Cina, furono solo 12 i membri a aderire.
Quello della lettera aperta è uno strumento utilizzato solo raramente all’interno dell’organo intergovernativo, ed è probabile sia stato scelto in mancanza di numeri sufficiente alla formulazione di una risoluzione ufficiale. Come dimostrano le numerose defezioni, la Cina vanta parecchi amici nel Consiglio. Al momento, si contano solo le firme di Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Islanda, Irlanda, Giappone, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Spagna, Svezia, Svizzera e Regno Unito.
Spicca l’assenza degli Stati Uniti, usciti dal Consiglio un anno fa lamentando “i pregiudizi contro Israele”. La preannunciata decisione di impugnare il Global Magnitsky Act per sanzionare i responsabili delle detenzioni extragiudiziali pare sia stata più volte rimandata per non compromettere i negoziati commerciali con Pechino. Ugualmente controversa la diserzione italiana. Solo pochi mesi fa, Roma ha sottoscritto il famigerato MoU sulla Belt and Road, un documento dai connotati politici più che economici, accolto dalla comunità internazionale con qualche riserva. Inutili le rassicurazioni di Sergio Mattarella sull’impegno del Belpaese “alla luce del mandato italiano nel consiglio per i diritti umani dell’Onu”. In un’analisi di aprile, l’European Council on Foreign Relations, esprimendo preoccupazione per la posizione remissiva mantenuta dall’Unione europea sullo Xinjiang, identificava nell’Italia il prossimo anello debole nel blocco dei 28 dopo Grecia e Ungheria, già responsabili del fallimento di iniziative congiunte in materia di diritti umani.
UPDATE: Nel weekend la Farnesina ha fatto sapere che “il Rappresentante permanente italiano presso le Nazioni Unite a Ginevra, l’ambasciatore Gian Lorenzo Cornado, ha comunicato ai proponenti della lettera l’adesione del nostro Paese entro i termini previsti”.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.