Cina. La città cinese di 13 milioni di abitanti chiusa per l’aumento dei casi (143). Ma il tracciamento è saltato e manca il personale
La politica «Covid zero» in Cina, benché abbia prodotto alcune lamentele nelle metropoli dove la popolazione è più abituata a muoversi e viaggiare, è stata ben presto rivalutata dalla grande maggioranza dei cinesi, specie alla luce della variante Omicron che ha creato scompiglio nel resto del mondo. Ieri in Cina si contavano poco più di 200 nuovi contagi, per questo la scelta della dirigenza e della comunità scientifica di procedere con chiusure e tracciamento costante è tornata ad essere applicata al minimo sintomo dell’emergere di un focolaio.
COME ACCADUTO A XI’AN, città di 13 milioni di abitanti e luogo turistico per la presenza dell’esercito di terracotta: un centinaio di casi ha portato le autorità alla chiusura. Solo che, rispetto ad altri luoghi dove il governo si è mosso con la consueta determinazione, a Xi’an alcuni disguidi hanno creato frenesia e polemiche.
Innanzitutto, come segnalato dalla rivista Caixin – che sta seguendo quasi in tempo reale quanto accade nella metropoli cinese – «il numero del personale sanitario impegnato nella ricerca epidemiologica sembra essere inadeguato e la qualità delle loro indagini potrebbe non essere all’altezza».
Secondo una fonte sentita dal magazine «Molti dei pazienti diagnosticati sono stati trovati durante i test di massa, il che è molto problematico, perché una buona indagine epidemiologica dovrebbe essere in grado di rintracciare e isolare le persone a rischio, in modo da interrompere efficacemente la catena di trasmissione». Il virologo Chang Rongshan ha osservato che per una città delle dimensioni di Xi’an, dovrebbero esserci circa 1.000 dipendenti impegnati nella ricerca epidemiologica.
ATTUALMENTE «LA CITTÀ ha solo 300 addetti e con l’aumento del numero di casi confermati, il sistema di controllo e prevenzione delle malattie della città sta lottando per mantenere il normale funzionamento». Secondo i racconti dei media statali, riportati dal Guardian, sarebbero state istituite «circa 3.000 stazioni per eseguire i test su tutti i residenti. Secondo il governo provinciale dello Shaanxi, oltre 45.000 medici volontari hanno unito gli sforzi per frenare la diffusione del virus. Le autorità starebbero indagando su 17.527 residenti che sono stati identificati come contatti stretti, mentre 41.671 persone stanno scontando la quarantena obbligatoria in hotel. I media hanno anche riferito che il personale medico dei centri di test soffriva di mani gonfie dopo aver condotto centinaia di test al freddo».
Come se non bastasse, anche il sistema di tracciamento cinese sarebbe saltato: i codici colore con i quali i cinesi – via app – conoscono dove e quando possono recarsi non avrebbe retto l’urto, andando in crash a causa dell’alto numero di utenti connessi.
MA IN GENERALE tutta l’organizzazione ha stentato, mettendo a rischio anche chi aveva urgentemente bisogno di cure, come un centinaio di pazienti dializzati che non ha potuto raggiungere gli ospedali per le proprie (e vitali) sedute. Secondo i media cinesi, inoltre, «I blocchi hanno interessato circa 135.000 studenti universitari che avevano in programma di sostenere l’esame di ammissione post-laurea in città tra sabato e 27 dicembre, spingendo le autorità educative locali a prendere accordi alternativi per i centri di test».
Anche per questo sarebbero almeno 26 i funzionari accusati di non aver svolto un buon lavoro nel controllo e nella prevenzione delle infezioni e quindi finiti sotto le grinfie delle autorità disciplinari.
Di Simone Pieranni
[Pubblicato su il manifesto]
Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.