La Cina si riserva il diritto di usare la forza per portare Taiwan sotto il suo controllo, ma si adopererà per ottenere una “riunificazione” pacifica per assicurare all’isola democratica un brillante futuro sotto il dominio cinese. Lo ha dichiarato il presidente Xi Jinping nel suo primo discorso dell’anno, insolitamente dedicato ai cugini di Taipei anziché al traballante stato di salute dell’economia nazionale, messa a dura prova dalle sanzioni americane.
Il tempismo non è casuale. Il 1 gennaio è ricorso l’anniversario del “Messaggio ai compatrioti di Taiwan” che – seppur in assenza di un formale accordo di pace – nel 1979 ha messo fine ai bombardamenti cinesi contro le isole amministrate dall’ex Formosa al largo della costa cinese. Da allora tuttavia Pechino non ha mai rinunciato al sogno di riannettere Taiwan – divenuta riparo per i nazionalisti sconfitti da Mao nel 1949 – ai propri territori sotto il motto “una sola Cina,” slogan ambiguo che ha permesso la coesistenza dei due governi lasciando a ciascuno la libertà di presentarsi all’esterno come unico vero rappresentare della Cina.
“La divisione politica attraverso lo Stretto … non può essere trasmessa di generazione in generazione”, ha sentenziato il leader nella Grande Sala del Popolo di piazza Tian’anmen, riproponendo un concetto esposto durante lo storico incontro con l’ex presidente nazionalista Ma Ying -jeou nel novembre 2015. Secondo Xi, “il problema di Taiwan esisteva perché al tempo la nazione era debole e nel caos, ma finirà grazie al ringiovanimento nazionale”, termine utilizzato lo scorso anno dal presidente durante il 19esimo Congresso del Partito per descrivere la grandeur in ambito economico, militare, sociale e politico a cui ambisce la Repubblica popolare entro la metà del secolo, per il centenario della fondazione.
Allungando un ramo d’ulivo, Xi ha affermato che i rappresentanti di entrambe le parti dovrebbero “avviare consultazioni democratiche approfondite per le relazioni tra le due sponde e il futuro della nazione cinese, e raggiungere accordi transitori per lo sviluppo pacifico dei legami tra le due sponde”. Da quando nel 2016 l’isola democratica è passata sotto la guida della leader indipendentista Tsai Ing-wen (aperta oppositrice di “una sola Cina”), Pechino ha congelato la comunicazione ufficiale con Taipei, optando per una strategia muscolare in ambito militare (attraverso frequenti operazioni aeree di accerchiamento) e persuasiva sul versante economico, grazie all’appeal esercitato dalle possibilità lavorative offerte dalla mainland ai giovani taiwanesi. Al contempo, sono sempre meno i paesi disposti a mantenere i rapporti diplomatici con l’ex Formosa davanti alle minacce di ritorsione messe in campo dal gigante asiatico.
In segno di distensione Xi ha affermato che il diverso modello politico delle due Cine non è un ostacolo alla riunificazione. Letteralmente: “il sistema sociale e lo stile di vita dei compatrioti di Taiwan saranno pienamente rispettati, e la loro proprietà privata, la religione e gli interessi legittimi saranno pienamente protetti dopo l’unificazione pacifica a condizione che siano garantite la sovranità, la sicurezza e lo sviluppo nazionali”. Quel che il presidente cinese propone è infatti una riunificazione sotto il controverso slogan “un paese due sistemi” in vigore a Hong Kong da quando l’ex colonia britannica è tornata alla madrepatria nel 1997 pur mantenendo formalmente un assetto politico democratico indipendente. Negli ultimi anni la crescente ingerenza di Pechino negli affari interni della regione amministrativa speciale è diventata motivo di apprensione per i vicini taiwanesi, impensieriti dalla prospettiva di una simile fine. “Devo ribadire che Taiwan non accetterà mai ‘un paese due sistemi’, e l’opinione pubblica è per la maggioranza contraria”, ha risposto Tsai in conferenza stampa.
Appena un giorno prima, nel suo discorso di inizio anno, la leader aveva dichiarato che Taiwan non rinuncerà mai alla sua sovranità, aggiungendo che la sconfitta schiacciante incassata recentemente alle amministrative dal partito di governo progressista non implica un riposizionamento degli umori popolari a favore di un riavvicinamento al regime comunista. Il risultato delle urne – che ha visto il rivale Guomindang estendere il controllo su 15 delle 22 città e contee – ha avviato una serie di contatti su base locale che rischiano di indebolire ulteriormente l’amministrazione filoindipendentista a circa un anno dalle presidenziali. Fino a oggi, la linea intransigente di Tsai ha potuto contare sul supporto degli Stati Uniti, ultimo vero alleato di Taipei. L’arrivo di Trump alla Casa Bianca ha sancito un rafforzamento dei rapporti diplomatici e militari con l’isola in chiave anticinese.
Nel suo monologo, Xi ha sottolineato come la divisione tra le due sponde dello Stretto sia il prodotto di influenze straniere in atto fin dalle Guerre dell’Oppio (1839 – 1842; 1856 – 1860). Proprio lunedì Trump ha riaffermato l’impegno degli Stati Uniti in supporto di Taiwan, ponendo il proprio sigillo sull’Asian Reassurance Initiative Act, disegno di legge che richiede un budget quinquennale di 1,5 miliardi di dollari per rafforzare la cooperazione economica, diplomatica e militare con gli alleati strategici regionali.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.