Economia e politica in primo piano. O meglio, economia per mettere la sordina alla politica, dove i due Paesi restano divisi su questioni territoriali e grandi progetti cinesi. Un riassunto dei temi che contraddistinguono la visita del premier indiano in Cina. Felice di accoglierla nella mia città. Così il presidente cinese Xi Jinping ha dato il benvenuto al premier indiano Narendra Modi a Xi’an, località nota per l’esercito di terracotta.
In realtà Xi è nato a Pechino, ma la sua famiglia viene dallo Shaanxi, di cui Xi’an è capoluogo.
Ma non solo. La scelta della città corrisponde a esigenze simboliche atte a rafforzare la collaborazione tra i due giganti asiatici: anche Modi accolse Xi in India nella propria città natale e Xi’an fu l’antica capitale cinese in cui arrivò il buddhismo sempre dall’India.
È anche il punto di partenza della Via della Seta storica, il dedalo di strade che univa l’Estremo Oriente all’Europa e che nelle intenzioni cinesi deve essere rilanciata per creare nuovo sviluppo su tutta Eurasia. India compresa.
Così si spiega perché il viaggio di tre giorni del premier indiano abbia fatto tappa prima a Xi’an e solo dopo a Pechino.
Al di là dei simboli, in ballo ci sono molti fatti concreti e parecchi problemi irrisolti.
Alla prima voce mettiamo i venti accordi da dieci miliardi di dollari che verranno firmati nei prossimi giorni. L’interscambio tra le due economie ammonta già a 70 miliardi di dollari, ma l’India ha un deficit commerciale di quasi cinquanta miliardi nei confronti della Cina, che è cresciuto ben del 34 per cento solo nell’ultimo anno.
Modi dovrà ottenere due cose: aprire maggiormente il mercato cinese alle produzioni indiane e spingere al tempo stesso la Cina a investire in India, soprattutto nell’apparato industriale e nelle infrastrutture, senza però ampliare ulteriormente il deficit.
Si può trovare un accomodamento. I prodotti indiani sembrano fatti apposta per la Cina: farmaceutico, tecnologie.
Quanto a industrie e infrastrutture, se dovesse decollare il grande progetto di una ferrovia che, attraverso Tibet e Nepal, congiungerà i due Paesi – per ora sulla carta – si dice che quella ferrovia sarebbe lastricata di attività produttive.
Questa strategia economica dovrebbe mettere la sordina alle dispute di confine che continuano a esistere da decenni.
Ma c’è un convitato di pietra: il previsto corridoio economico che collegherà lo Xinjiang cinese al porto di Gwadar, nel Beluchistan pakistano, e che passa attraverso quello che Delhi chiama “il Kashmir occupato dal Pakistan”. L’India non vuole assolutamente sentire parlare di un’iniziativa che di fatto ratificherebbe il possesso dell’area da parte di Islamabad.
C’è poi il "filo di perle", quel sistema di porti gestiti dalla Cina che nelle intenzioni di Pechino costituirà parte della "Via della Seta marittima" e nelle paure di Delhi una specie di cappio al collo: Chittagong (Bangladesh), Hambantota (Sri Lanka), Marao (Maldive) e, appunto, Gwadar in Pakistan. Probabile che, in questo caso, l’India faccia buon viso proponendo la anche un approdo sulle proprie coste (non necessariamente ora).
La diplomazia indiana avrebbe già sottoposto i problemi a quella cinese, che si trova adesso a dover fare i conti con le ricadute dei propri grandi progetti da nuova superpotenza globale.
Nei prossimi giorni, su questi punti, Cina e India potrebbero limitarsi a dichiarazioni d’intenti. Per noi è forse difficile comprenderlo, ma da queste parti, una non soluzione è spesso meglio di una soluzione.