In Cina stanno accadendo molte cose; vista la difficoltà a recarsi nel paese abbiamo cercato una bussola, ponendo alcune domande a Federico Masini, sinologo, professore di lingua e letteratura cinese (tra i suoi libri, oltre quelli sulla lingua e la grammatica cinese, ricordiamo Italia e Cina con G. Bertuccioli, pubblicato da Laterza nel 1996) e grande conoscitore del Paese.
Partirei dal discorso di Xi del 17 agosto: prosperità comune e necessità di redistribuire le ricchezze spropositate.
La storia dell’economia è fatta di accumulazione e distribuzione e i cinesi a un certo punto hanno deciso di muoversi su questo pendolo. Con le riforme si riteneva che l’accumulazione fosse la priorità, lasciando al mercato, come da noi, la distribuzione. Le diseguaglianze però sono diventate intollerabili. Questa inversione di tendenza di Xi da un lato è motivata e comprensibile, abbiamo visto dei fenomeni di arricchimento in Cina davvero macroscopici: in questo senso l’impegno per la redistribuzione appare piuttosto ragionevole. Il metodo però, specie nei cinesi che hanno vissuto una parte della loro vita prima del 1978, ricorda il tentativo di redistribuire una ricchezza che non c’era durante gli anni ’60 e quindi credo che desti qualche preoccupazione.Xi va verso il terzo mandato. Come valutare questa leadership e la sua attuale storia?
Si può rispondere in modo speculativo perché è molto complicato sapere cosa succede nel Pcc. Possiamo partire dal fatto che il sistema che Xi Jinping sembra avere interrotto era un sistema che a noi, in Occidente, appariva più rassicurante, perché avevamo la sensazione dell’alternanza, una percezione di dinamicità, di ciclicità rassicurante. La svolta attuale è un ritorno alla storia millenaria cinese, in cui la ciclicità è data soltanto dalla lunghezza della vita naturale, ovvero il sistema nel quale la Cina ha vissuto per parecchio tempo. La percezione esterna in ogni caso è quella di unicità della leadership e per noi questo è incomprensibile, perché è da sempre combattuta e non apprezzata.
A proposito di percezione dall’esterno: la Cina ha affrontato molte fasi in questo periodo pandemico; dapprima modello, poi origine del virus e infine con l’arrivo di Biden una sorta di avversario letale per l’Occidente. A prescindere dal grado di considerazione della Cina come nemico, perché il Paese fatica a inserirsi in un discorso politico e culturale occidentale?
Potrei banalizzare, ma noi abbiamo una storia di migliaia di anni di relazioni internazionali, che sono una base della nostra civiltà anche da prima che esistessero le nazioni, di fatto. Sulla base di questo abbiamo sviluppato la nostra storia di guerre e relazioni diplomatiche. La Cina ha avuto una storia diplomatica brevissima che risale al periodo degli Stati combattenti (453 a.C. al 221 a.C. Ndr). Per 2mila anni poi non ha avuto relazioni esterne come le intendiamo noi. Da questo punto di vista mancano proprio di una tradizione. Il primo ministero degli esteri è stato fondato nel 1868; prima esistevano uffici che si occupavano dei tributi. Se guardiamo alla storia della Rpc le relazioni diplomatiche vere e proprie cominciano negli anni 70, compresi i contesti internazionali e le organizzazioni internazionali, dove l’attivismo cinese in realtà è piuttosto recente. Pur avendo probabilmente competenze pesa la propria tradizione e talvolta ingenuità nelle relazioni. Il caso dei wolf warriors mi pare piuttosto chiaro: i loro toni erano talvolta risibili specie nei confronti di paesi sovrani. Avrebbero potuto trarre maggior beneficio con altri comportamenti. Come del resto hanno fatto in passato: a partire dagli anni ’80 la Cina ad esempio in Italia ha goduto di buona stampa, pensiamo al resoconto del viaggio di Pertini, il primo di un presidente italiano. Il post Tiananmen è durato pochissimo: Andreotti andò a Pechino poco dopo. Con Xi Jinping c’è stato un inizio di caduta ma a cambiare radicalmente la percezione è stata la nuova politica americana di Biden. Ma la mia sensazione è che oggi alla Cina non interessi più provare a farsi una buona stampa all’estero. L’idea del soft power è superata. Talvolta usa l’hard power ma con motivazioni commerciali.
Con scopi il più delle volte interni…
Certo, torniamo alla prima domanda: la stabilità cinese si misura nella capacità del proprio governo di garantire prosperità. Se venisse meno sarebbe in grande difficoltà tutto il sistema.
Nella nuova situazione internazionale la Cina ha finito, in sostanza, per proporre un nuovo ordine mondiale partendo da un assunto: che i diritti che l’Occidente concepisce come universali, in realtà non lo sono. Ognuno ha i propri, dicono i cinesi e lo stanno sottolineando in particolar modo con riferimenti agli eventi in Afghanistan.
In questo la Cina non è sola e la fine dell’Afghanistan ha significato questo per Pechino; lo scenario è cambiato nel momento in cui anche la politica nordamericana è cambiata. L’esportazione del modello Usa dopo 20 anni non è più nell’agenda americana: in questo senso si è creato uno spazio per la Cina e per la proposizione di un modello diverso. Ma poi in realtà Pechino cerca di adattarsi – ad esempio negli organismi internazionali – a concetti accettati da tutti, per quanto provi talvolta a scartare dallo status quo.
Di Simone Pieranni
Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.