Nella capitale mondiale del gioco d’azzardo, gli intermediari che portano ai tavoli dei casinò i ricchi cinesi sono nel mirino del Pcc. Una serie di arresti ha gettato il business nel caos
Macao, capitale mondiale del gioco d’azzardo. Almeno fino a qualche giorno fa. Nelle ultime settimane, infatti, una serie di arresti di potenti junkets, gli intermediari che portano ai tavoli dei casinò ricchi cinesi e che fino a poco tempo costituivano le maggiori entrate per le sale da gioco, ha messo in difficoltà un business che sembrava non avere limiti. Le entrate sono diminuite drasticamente: prima ci ha pensato il Covid, poi ha finito il lavoro la campagna lanciata dalla Cina contro i junket.
IL PRIMO ARRESTO importante, qualche settimana fa, è stato quello di Alvin Chau, classe 1974, considerato il numero uno nel suo settore, dopo aver «sostituito» Paul Phua, finito in una storiaccia che ha coinvolto l’Fbi nel 2016 per scommesse illegali. Alvin Chau, secondo le cronache, avrebbe costruito il suo impero da zero. «È entrato nel settore a 20 anni – ha scritto Caixin – prestando servizio come junket worker, attirando high rollers, aiutandoli ad aprire conti e depositare fondi e presentandoli agli usurai». Chau avrebbe avuto connessioni con la Triade di Macao, avrebbe cooperato con gangster e nel 2007 ha fondato Suncity Group. Nel 2016 ha lanciato piattaforme di gioco online nelle Filippine, che sono diventate rapidamente popolari nella Cina continentale. Esattamente quanto non vuole Pechino, considerando che «gli emendamenti alla legge penale, entrati in vigore lo scorso marzo, prevedono che coloro che organizzano il gioco d’azzardo all’estero per i cinesi della Cina continentale potrebbero rischiare fino a 10 anni di reclusione se la somma di denaro coinvolta è ingente o il loro comportamento porta a conseguenze gravi». Chiuse le sale vip, chiuse le attività dell’azienda (le cui azioni sono crollate) e via via altri junket minori sono finiti agli arresti, compreso Weng Lin Chan, capo del secondo operatore più grande della città, il gruppo Tak Chun. Gli analisti – secondo Bloomberg – si aspettano che le entrate che arrivano dai clienti vip scendano del 43% quest’anno, mentre le entrate complessive dei giochi dovrebbero crescere del 59% anno su anno».
A MACAO dunque, al momento, è in corso una sorta di sterminio dei junket e una probabile ridefinizione delle regole per i casinò con Pechino che punterebbe a sviluppare altri business nell’ex colonia portoghese (quest’anno scadranno le licenze delle aziende dei junket e c’è da credere che nuove norme renderanno più complicato avviare un’attività di questo genere).
Lo scopo della campagna di Pechino ha a che vedere con diversi fattori: in primo luogo c’è la volontà di ridefinire la natura dell’ex colonia portoghese, trasformandola da capitale del gioco d’azzardo a capitale di servizi medici e turismo per miliardari all’interno del più ampio progetto della Greater Bay Area (con Hong Kong e Shenzhen). Dall’altro c’è il consueto tentativo della Cina di fermare una emorragia di capitali verso l’estero (non a caso arresti e inchieste sulle attività di riciclaggio e scommesse clandestine sono periodiche). I junket, infatti, osservano i potenziali clienti, ne verificano le capacità creditizie e infine organizzano viaggi e prenotazioni di sale super riservate nei casinò di Macao, prestando soldi ai ricchi cinesi che per legge non possono portare fuori dal paese più di 50mila dollari all’anno (non a caso dagli atti si evince che le autorità cinesi alla fine del 2020 avevano arrestato un gruppo di persone con l’accusa di gioco d’azzardo illegale nelle province orientali tra cui Jiangsu, Zhejiang, Fujian e Guangdong. La maggior parte di loro è stata indagata per collegamenti con servizi di gioco d’azzardo vip a Macao). I metodi per portare fuori i soldi sono tanti, comprese le scommesse su piattaforme on line. Ma naturalmente quando c’è di mezzo la Cina di Xi Jinping c’è di mezzo la politica, e in questo caso rientra in gioco l’espressione «prosperità comune» lanciata ad agosto dal numero uno cinese. Da un lato è aumentata l’attenzione ai patrimoni dei miliardari cinesi in previsioni di redistribuzioni volontarie – come nel caso delle grandi aziende hi-tech – o forzate. Dall’altro la volontà di Xi di riequilibrare ha portato a un nuovo attivismo dei ricchi cinesi nella volontà di portare fuori dal paese parte del proprio patrimonio. Alvin Chau – ad esempio – gestiva all’incirca 80mila clienti della Cina continentale, oltre a intrallazzare anche nel campo cinematografico: possiede liste e nomi che potrebbero sempre venire utili alla commissione disciplinare del Partito, in un momento nel quale, con vista sul XX Congresso del Pcc a ottobre, è in corso una nuova ondata della infinita campagna anti corruzione di Xi Jinping.
C’È POI UN ASPETTO che ha a che vedere con la gestione politica di Macao che dal 1999 è regolata secondo la dottrina di «un paese due sistemi». Per non rivedere le proteste di Hong Kong, prima che venisse «normalizzata», Pechino ha già mosso le sue pedine in un luogo che pare molto più prono ai dettami cinesi rispetto alla riottosa Hong Kong. Per questo sarà cambiata la legge elettorale in modo da favorire i candidati «patriottici» graditi a Pechino, aumentando ancora di più la possibilità del Pcc di controllare la gestione di Macao, i cui legislatori, in autonomia, hanno anche già emanato una legge sulla sicurezza nazionale molto simile a quella che Pechino ha imposto a Hong Kong.
Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.