Abbiamo visto Great Wall, kolossal sino-americano che celebra il simbolo più ingombrante della cultura cinese.
Lo abbiamo visto, ma non lo liquideremo dicendo «Zhang Yimou è morto» come ha fatto qualche critico su Weibo; il commento ha scatenato le proteste di uno dei produttori cinesi Le Vision, costola cinematografica del colosso IT e ora in crisi LeTV/ Le Eco. La reazione svela come l’argomento sia sensibile e come con Great Wall si siano scoperti i nervi del cinema cinese.
C’è infatti molto di più intorno a questo film, anche molto più delle polemiche che hanno preceduto l’uscita del film, con l’accusa di white-washing: il fatto cioè che si inserisca nel film un protagonista occidentale (Matt Damon) per sedurre il pubblico internazionale. Qui, Matt Damon è un mercante, un mercenario senza dio e senza patria alla ricerca di quella polvere da sparo che è ancora un segreto miracoloso e prezioso che si trova custodita gelosamente in Cina. Arrivato al confine viene preso prigioniero nelle fortificazioni della muraglia, dove però l’esercito è concentrato ad affrontare un ben più pericolosa minaccia.
Great Wall è un nuovo punto di svolta del cinema cinese. Co-produzione tra Cina e Hollywood, un progetto da 150 milioni di dollari, che alza la posta in gioco dell’industria nazionale e la espone a un mercato globale. Per un’operazione così grande e delicata ancora una volta è stato chiamato Zhang Yimou, come già fu per le Olimpiadi di Pechino del 2008. L’obiettivo è replicare i successi internazionali di film come Hero e La Tigre e il Dragone, ma aggiornati alla luce dello sviluppo del mercato cinese, capace di trainare il mercato mondiale e pronto a superare Hollywood in pochi anni, e Great Wall è il banco di prova per capirne le vere potenzialità su scala globale.
Great Wall è un film puramente commerciale, una macchina fatta di spettacolo e azione mozzafiato, ma mascherato da «film cinese». Privo però di «Cinema» e privo di Cina.
Il film è infatti astratto dalla storia e dalla cultura cinesi, se non nei suoi simboli più evidenti: la muraglia, i costumi, le masse umane; ma questi sono privi di un contesto storico preciso, di una cornice culturale significativa. Sopravvive però in modo sottinteso tutto quello spirito del processo storico che oggi è ancora il motore dell’ideologia presente: la legittimazione del potere, sempre, anche quando si dimostra incapace e miope, e la distinzione con «l’altro», lo straniero.
Zhang Yimou mette a nudo un imperatore bambino, inetto, spaventato ma arrogante, ed erge una muraglia culturale ben più alta di quella di pietra, che lascia Matt Damon un attonito laowai dall’inizio alla fine, e la bella generalessa Lin intatta nella sua fierezza cinese.
Ecco, questo sarebbe potuto essere il tema del film, ma si viene sopraffatti dall’azione, dal gioco delle meraviglie pirotecniche, dalla massa di soldati, armi e mostri; dallo spettacolo insomma.
La muraglia, oggi rudere immobile e grigio di una civiltà eterna, diventa rigonfia di uomini, come solo il suo tratto oggi più turistico – Badaling – sa diventare durante le feste; e si anima di congegni e armi complesse, mentre però la polvere da sparo viene tenuta ben nascosta, e inutilizzata, nei sotterranei.
Come succede per questo tipo di film di consumo di massa e pop-corn, la profondità narrativa viene tralasciata, così i personaggi non sono persone, e la storia non è trama.
Insomma, se Zhang Yimou non è morto, non è che comunque stia molto bene. Schiacciato probabilmente tra una sceneggiatura non scritta e non sentita (gli sceneggiatori sono tutti americani), e tra un sistema produttivo hollywoodiano che lascia ben poco spazio creativo al regista.
Così dell’autore di Lanterne Rosse e Hero (solo per citare i suoi film più famosi) rimangono delle citazioni riflesse, come i colori dei diversi reparti militari che ricordano i colori di Hero, e i riflessi dei vetri colorati nella pagoda che rimanda al sacrificio ultimo di Flowers of War. Insomma, se nella prima settimana di proiezione il pubblico ha risposto numeroso, oggi, a quasi un mese dell’uscita, il film sembra ormai a fine corsa, e il seppur ragguardevole incasso di 1,2 miliardi di yuan è solo metà di quello che sarebbe servito per recuperare tutti i costi.
A ottobre è prevista l’uscita in America, ma difficilmente si ripeterà il successo internazionale di Hero.
Però, certo, Great Wall rimane un prodotto ben confezionato, che può lasciare sbalorditi ma che non incanta, e che difficilmente sopravvivrà alle ceneri del tempo e della memoria, come la grande opera in pietra che ha dato vita al film.
di Edoardo Gagliardi
*Edoardo Gagliardi, laureato in studi orientali, ha ottenuto un dottorato in cinema cinese contemporaneo presso l’Università di Roma La Sapienza, dopo un periodo di studi alla Peking University. Vive a Pechino da diversi anni dove lavora su progetti e coproduzioni cinematografiche tra Italia e Cina, collaborando in passato con il desk ANICA di Pechino. Nel tempo libero si interessa di musica, una volta anche con il blog Beijing Calling, su queste pagine.
«I Wenchan Ban sono gli uffici di promozione delle industrie culturali che si trovano in molti governi locali cinesi. Il Wenchan Ban di China Files è diretto da Edoardo Gagliardi, e il suo compito è quello di raccontare e promuovere ogni due settimane le nuove storie di cinema, musica e dell’industria culturale cinese, del loro mercato e dei loro protagonisti.» [E.G.]