Wenchan Ban – 1986-2016, trent’anni di Cui Jian

In by Simone

Se c’è un cantante cinese che non ha bisogno di presentazioni, è sicuramente Cui Jian. Basta dire che ha creato il rock in Cina, non semplicemente importandolo dall’occidente, ma trovandone una forma tutta cinese, che ha saputo dare voce a quella generazione di giovani che con lui è cresciuta. Edoardo Gagliardi è stato al concerto-evento dei trent’anni di carriera del «vecchio Cui» allo Stadio dei Lavoratori di Pechino. Quest’anno Lao Cui, «il vecchio Cui» come viene chiamato, ha raggiunto i 30 anni di carriera, e li ha celebrati con un grande concerto lo scorso venerdì allo Stadio dei Lavoratori di Pechino. Oltre due ore che hanno visto Cui Jian alternare i classici che hanno ispirato una generazione ai brani più recenti del suo ultimo album Guangdong, ma anche la presenza di ospiti e performer. Primo tra tutti Stuart Copeland, batterista dei leggendari Police, che ha suonato alcuni brani tra cui una dimenticabile versione cinese di Message In a Bottle. E poi il giovane rapper Dawei, che Cui Jian ha scoperto probabilmente durante le serate d’improvvisazione Grand Jam del locale DDC, che spesso frequenta esibendosi alla tromba con giovani musicisti locali. Con Dawei e il bravo B-Box (quelli che imitano i beat e i suoni dei vinili con la bocca) Jia Gonghong, Cui Jian inizia un dialogo che è allo stesso tempo un ideale passaggio di consegne con la nuova generazione, ma anche uno dei momenti più deboli della serata. Anche il pubblico, di un’età media molto alta, fatto di devoti fan, ha mostrato segni di impazienza.

Sono stati infatti i brani classici, Long March of Rock’n’roll, e A piece of Red Cloth e l’immortale Nothing to My Name che hanno infiammato il pubblico, che ha cantato mentre sugli schermi del palco scorrevano le immagini di quegli anni degli esordi che sembrano lontanissimi.

Molta cura produttiva, ottima band tra cui i suoi amici di sempre ad accompagnarlo. Ma a mancare sono stati la voce di Cui Jian, ormai stanca, che dopo trenta minuti dava già segni di difficoltà, e la vera dimensione del rock da stadio, con un «prato» coperto, diviso e vigilato in compartimenti definiti per prezzi di biglietti e fasce sociali, in una versione asettica e rigidamente organizzata, ulteriore espressione del rock con caratteristiche cinesi.

Eppure Cui Jian, proprio per questa sua capacità di esplorare nuovi orizzonti musicali, di capire come non scontrarsi contro il potere e la censura pur mantenendo un’integrità artistica, e i suoi continui ammiccamenti a una musica «commerciale» che però non è mai banale, è forse nel bene e nel male quanto di meglio la cultura mainstream cinese può offrire in questi anni di grigiore.

Ma per capire cosa Cui Jian esattamente rapprenti per il suo pubblico, abbiamo scambiato due parole con Qu Nan, presidente dello Cui Jian Fan Club presso l’Università di Pechino, un gruppo che ha accompagnato e sostenuto Cui sin dai primi passi e che venerdì si è presentato compatto nelle prime file, tutti con cappellino bianco con stella rossa, vessillo dell’amato Cui.

«Cui Jian è insostituibile, è il John Lennon della nostra generazione. Lo abbiamo accompagnato sin dal 1986 con il suo primo brano Nothing In My Name e siamo cresciuti con lui. In questi 30 anni Cui ha attraversato molte difficoltà, all’inizio ancora non gli era permesso suonare in luoghi pubblici, ma questo ci diede la possibilità di invitarlo a suonare invece nel campo della nostra Università, dove diventammo amici. Poi gli fu possibile suonare in altri posti lo abbiamo sempre seguito ad ogni concerto e interagito con lui. Ma in seguito (dopo i fatti di Piazza Tiananmen del giugno 1989) gli fu proibito esibirsi a Pechino, e alcuni di noi si erano trasferiti all’estero, così fummo in grado di portarlo a suonare in America, dove il pubblico era soprattutto composto da student cinesi. Ma anche i concerti nelle altre città cinesi non si sono mai fermati, e noi lo abbiamo sempre seguito ovunque.
Riguardo il concerto di stasera, l’inserimento di video, danzatori, rapper e b-box lo hanno reso forse il concerto di Cui Jian più ricco e grande di sempre e hanno portato un senso di novità alla sua musica. Ma è solo quando all’ultimo ha intonato Nothing to My Name e sullo schermo sono scorse quelle vecchie foto che ci siamo veramente commossi».

*Edoardo Gagliardi, laureato in studi orientali, ha ottenuto un dottorato in cinema cinese contemporaneo presso l’Università di Roma La Sapienza, dopo un periodo di studi alla Peking University. Vive a Pechino da diversi anni dove lavora su progetti e coproduzioni cinematografiche tra Italia e Cina, collaborando in passato con il desk ANICA di Pechino. Nel tempo libero si interessa di musica, una volta anche con il blog Beijing Calling, su queste pagine. «I Wenchan Ban sono gli uffici di promozione delle industrie culturali che si trovano in molti governi locali cinesi. Il Wenchan Ban di China Files è diretto da Edoardo Gagliardi, e il suo compito è quello di raccontare e promuovere ogni due settimane le nuove storie di cinema, musica e dell’industria culturale cinese, del loro mercato e dei loro protagonisti.» [E.G.]