Verdi di invidia, ma pronti a sfidare il Great Firewall pur di partecipare con entusiasmo al trend del momento: Squid Game. Così milioni di spettatori cinesi sono ricorsi a siti di streaming illegali e download su Torrent e Baidu Wangpan per capire il perché di tanto fermento attorno alla serie di Hwang Dong-hyuk divenuta un fenomeno globale.
Distribuita da Netflix, e quindi non disponibile nella Repubblica Popolare Cinese, Squid Game racconta le vicende di un gruppo di persone sul lastrico che acconsente di partecipare a una competizione mortale per ripagare i propri debiti. Nel k-drama distopico a metà tra Black Mirror e Battle Royale, 456 giocatori si scontrano in sei sfide letali, create sulla falsariga dei giochi d’infanzia della tradizione coreana, per vincere un montepremi da 45.6 miliardi di won (33 milioni di euro).
Un survival game all’ultimo sangue, e una critica alla disuguaglianza nata in seno al capitalismo. E tanto è bastato per guadagnarsi il favore del pubblico cinese, a cui le dinamiche di gamificazione della società sono familiari da tempo. Questo nonostante, come ricorda uno dei dirigenti di Netflix, “al momento non esiste un modo legale di vedere Squid Game in Cina”. La serie non è stata comprata da nessun distributore cinese, anche perché il suo carattere crudo e sanguinolento non passerebbe al vaglio della Sarft (State Administration of Radio Film and Television), l’ente statale che filtra i prodotti culturali in circolazione nella Rpc. Dal 2008, infatti, la codificazione della censura cinese esclude qualsiasi pellicola che mostri incitazione alla violenza, omicidi, sangue e “mancanza di rimorso nel commettere crimini”. Tutti ingredienti imprescindibili nella serie tv targata Netflix.
Ma l’apparato censorio di Pechino non è riuscito a tenere fuori dalla sua muraglia digitale la frenesia da Squid Game che ha travolto il mondo. Nelle ultime settimane, l’hashtag #SquidGame (youyu youxi, 鱿鱼游戏) è salito in cima alla classifica dei temi più discussi sulla piattaforma di microblogging Weibo, e ad oggi conta quasi quattro miliardi di menzioni. Popolare anche l’hashtag #Dalgona, la pasta di zucchero a formine presente in uno dei giochi della serie, che ha raggiunto le 150mila visualizzazioni. Su Douban invece, il Rotten Tomatoes dell’internet cinese, Squid Game ha ricevuto un punteggio di 7.7 su 10, grazie alle recensioni di oltre 140mila utenti. Straripante anche Douyin, dove meme e video che ripropongono i giochi tratti dai primi episodi sono all’ordine del giorno.
Sempre su Weibo è avvenuto lo scambio illegittimo di link tra utenti per reperire la serie con sottotitoli in cinese. “Ringrazio i miei amici del web per avermi permesso di guardare questa serie”, commenta un eternauta. “Per fortuna il mio ragazzo è un nerd dell’informatica”, seguita un altro. Come lamentato dall’ambasciatore coreano in Cina, Jang Ha-sung, in un reclamo ufficiale alle autorità di Pechino, attualmente nel web della Rpc esistono almeno 60 siti pirata dove è possibile guardare Squid Game.
Niente di nuovo sul fronte orientale. Secondo l’Agenzia di protezione del copyright di Seoul, la Cina è il primo paese per distribuzione illegale di prodotti di intrattenimento coreani. Un record che detiene da cinque anni e che, alla luce del recente giro di vite da parte del governo cinese all’industria dell’intrattenimento e alla cultura degli idol (che ha portato tra le altre cose alla chiusura di un fanclub della band coreana Bts), è presumibile si protragga. Le contraddizioni della “serie fantasma” non finiscono qui. Da quando è stata trasmessa per la prima volta su Netflix, le industrie del manufatturiero di Shenzhen e Guanzhou hanno lavo rato a pieno ritmo per produrre merchandising non autorizzato di Squid Game.
Maschere, tute, scarpe, perfino il biscotto Dalgona, tutto è a portata di clic sulle piattaforme di e-commerce cinesi (Taobao e JD), ma anche coreane (Coupang). È il capitalismo con caratteristiche cinesi, dove i consumatori non sono mai realmente isolati dal resto del mondo, anche a fronte delle restrizioni che la barriera digitale cinese impone. E dove il fiuto per gli affari tipico del sud della Cina non perde mai un colpo.
Così come anche Parasite di Bong Jon-ho, Squid Game è intriso di elementi culturali specifici della Corea del Sud, e ha avuto il grande pregio di raccontare la società coreana a un pubblico internazionale. Un merito che i social cinesi hanno denominato come “esportazione culturale coreana” (hanguo wenhua shuchu, 韩国文化输出) e che su Weibo è stato motivo di profonda invidia. “Sono così invidioso che mi viene da piangere”, recita uno dei commenti più popolari della piattaforma. “Sono piuttosto invidioso nel vedere l’esportazione culturale dei coreani”, gli fa seguito un altro.
Da sempre attenta all’immagine di sé che proietta sul panorama globale, la Cina del web ha visto nel successo di Squid Game un’occasione mancata di affermare la propria rilevanza culturale e la sua influenza nello showbiz internazionale. A rinforzare questo pensiero ha contribuito anche la scelta di Louis Vuitton di sotituire Kris Wu, attore sino-canadese finito in disgrazia perché accusato di stupro, con la nuova brand ambassador coreana Jung Ho-yeon, attrice di Squid Game.
Il successo della serie di Netflix ha al contempo portato gli utenti di Weibo a denunciare la scarsa qualità delle serie tv cinesi. Un parere condiviso anche tra i più reticenti a riconoscere l’ottimo risultato dei loro dirimpettai, come dimostra un commento che dice: “Il motivo per cui non sopporto i coreani è che hanno rubato le nostre tradizioni e la nostra cultura, ma devo ammettere che i loro show sono belli da guardare, e decisamente molto meglio dei nostri”.
Naturalmente c’è anche chi non ha visto niente di genuino nella produzione coreana, ritenendo che la serie fosse “tutto fumo e niente arrosto” (hualihushao, 花里胡哨). Secondo alcuni netizens, il successo coreano è merito dell’influenza statunitense, e la Corea del Sud sarebbe “il cagnolino degli Usa” che ha “plagiato la cultura dei nostri antenati”.
La discussione sui social ha tuttavia portato alla luce una grande critica dei netizens cinesi nei confronti dei programmi televisivi della Rpc. “I drama cinesi trattano di complotti reali, viaggi nel tempo, amori liceali o storie di lotta anti-giapponese – riassume un utente- non penso che questi temi interessino agli stranieri. Anche perché le serie sono fatte male”. Un altro conferma: “Persino le serie tv più semplici fanno pena e sono inguardabili”. E ancora: “Dopo aver visto diversi k-drama non riesco più a guardare serie locali, la trama fa schifo e la recitazione è spazzatura”.
Moltissimi utenti si sono trovati d’accordo nell’imputare tale mediocrità alle restrizioni vigenti in Cina nel settore dell’intrattenimento. “Se non ci lasciano filmare, non c’è molto che possiamo esportare” afferma lapidario un utente. “Anche noi avremmo degli ottimi attori, ma ci sono cose che non ci è concesso filmare”, gli dà corda un secondo. A riprova della dinamicità dei social network cinesi, dove nonostante la supervisione statale il dibattito non è mai completamente acritico nei confronti delle regolamentazioni imposte dall’alto, la conversazione attorno a Squid Game su Weibo ha palesato lo sconforto di molti utenti nei confronti delle recenti misure ai danni dello showbusiness, con le quali Pechino sta provando a creare un ambiente “sano e armonioso”. “È davvero difficile pensare di esportare buoni prodotti culturali all’estero nel clima corrente in Cina”, dice un utente. “Anche per gli idol dei drama non è un buon momento”, risponde un altro.
In tanti poi hanno criticato la Cina di essere troppo intollerante e sensibile (ritorna il termine “cuore di vetro”, bolixin, 玻璃心) e diversi utenti hanno menzionato il caso di Ultraman, eroe dell’omonimo cartone giapponese oscurato sui social per le sue tendenze “violente e criminali”. “Mentre l’esportazione culturale coreana ha vinto il suo passato intorpidimento, la Cina continentale sta ancora a discutere se Ultraman è troppo violento. Questa la chiamate libertà culturale?”, recita un commento tra i più diretti. Gli fa eco nel lamentare la creatività cinese strozzata dalle nuove direttive un altro utente: “A volte quando sento che dovremmo avere ‘fiducia e orgoglio nella nostra cultura’ penso che ci stiamo tirando la zappa sui piedi”.
Al netto dell’apprezzamento cinese per Squid Game, quello che la discussione online a partire dal drama coreano sottolinea è ancora una volta che lo spazio digitale cinese si nutre di contenuti culturali internazionali anche a fronte di misure più stringenti. Negli ultimi mesi le autorità di Pechino hanno intensificato i controlli sui contenuti culturali in circolazione nella Rpc, ma come dimostrato dal paradosso di Squid Game, serie non disponibile e al contempo quarto show più visto di sempre in Cina, gli intraprendenti utenti del web cinese sono ostacolati nel reperire contenuti, ma non sono mai immobili o isolati dal resto del mondo. E non vedono l’ora di dire la loro sull’ultimo trend in voga. Dopo avere incassato con invidia e delusione il colpo del successo dei vicini coreani, per gli utenti di Weibo resta la speranza che “un giorno anche la Cina potrà produrre contenuti di qualità come Squid Game”.
Giornalista praticante, laureata in Chinese Studies alla Leiden University. Scrive per il FattoQuotidiano.it, Fanpage e Il Manifesto. Si occupa di nazionalismo popolare e cyber governance si interessa anche di cinema e identità culturale. Nel 2017 è stata assistente alla ricerca per il progetto “Chinamen: un secolo di cinesi a Milano”. Dopo aver trascorso gli ultimi tre anni tra Repubblica Popolare Cinese e Paesi Bassi, ora scrive di Cina e cura per China Files la rubrica “Weibo Leaks: storie dal web cinese”.