Poche cose al mondo riescono a tenere milioni di persone sintonizzate sullo stesso evento come le Olimpiadi, momento catalizzatore di competitività atletica quanto di orgoglio nazionale anche in questi travagliati giochi di Tokyo 2020. Nella schiera di paesi che ogni quattro anni si ritrovano per misurarsi con i limiti dello sport, c’è chi pensa al medagliere, e c’è chi mente. Di queste ambizioni la Repubblica Popolare Cinese non ha mai fatto segreto e dopo il primissimo oro di Xu Xiaofeng nella pistola libera a Los Angeles 1984 non ha smesso di battersi per raggiungere il primato olimpico. Obiettivo finora centrato solo nel 2008 ai giochi di Pechino.
Alle Olimpiadi di Tokyo 2020 la Cina si posiziona seconda nella classifica totale, con 88 medaglie e solo un oro a separarla dagli Stati Uniti (38 Cina e 39 Usa). Un secondo posto che nulla toglie ai risultati straordinari degli atleti cinesi. Dal tuffo perfetto della 14enne Quan Hongchan, alla qualificazione storica di Su Bingtian nei 100 metri maschili, passando per i successi nel sollevamento pesi e nel tiro a segno, sono state molte le gare in cui il pubblico cinese ha commentato con fervore patriottico sulle piattaforme social.
Per quanto il Comitato Olimpico abbia cercato di de-politicizzare questi giochi, sul palcoscenico delle Olimpiadi lo sport incontra inevitabilmente gli interessi nazionali, soprattutto per un paese che ha fame di rivalsa come la Cina. Niente dice “potenza mondiale” come l’inno nazionale riprodotto 38 volte in 16 giorni. Non esiste, in altre parole, terreno più fertile di quello dei giochi olimpici per far germogliare i semi del nazionalismo e fortificare narrative di rivincita identitaria. Ma se sostenere il proprio paese alle Olimpiadi non è un fatto esclusivo dei fan cinesi, nella sempre più polarizzata sfera digitale della Rpc un argento può non essere abbastanza e un mancato podio considerato un “oltraggio alla nazione”.
È quanto accaduto a seguito di alcune sconfitte particolarmente amare agli atleti cinesi, che oltre a gestire la pressione agonistica hanno dovuto fare i conti con la rabbia degli utenti di Weibo, offesi per le performance “scadenti” e i risultati subottimali in diverse discipline. Come successo a Wang Luyao, che dopo aver mancato la finale della carabina 10 metri è stata invitata a “riflettere sul suo fallimento”. “Ti abbiamo mandato alle Olimpiadi a rappresentare il paese per essere così debole secondo te?”, scrive un utente: mancare l’obiettivo è un affronto per tutto il popolo. La giovane ha ricevuto minacce e insulti per avere postato un selfie in pigiama a seguito della sconfitta, tanto denigratori che Weibo ha sospeso 16 account per contenuti inappropriati. Non è andata meglio, nella stessa disciplina, all’oro olimpico Yang Qian, che per avere indossato un paio di scarpe Nike (azienda tra quelle coinvolte nella controversia H&M – cotone dello Xinjiang) è stata additata come “anti-patriottica”.
A fronte del risultato più o meno soddisfacente, quello che conta per gli utenti di Weibo per onorare il paese è anche l’avversario coinvolto. Ecco così che la coppia Liu Shiwen e Xu Xin, dopo aver perso nella finale del doppio misto tennistavolo contro il Giappone è stata accusata di aver “fallito la nazione”. Per i leoni da tastiera di Weibo, alle Olimpiadi c’è in ballo l’orgoglio della “madrepatria” e perdere contro “il piccolo Giappone” rievoca ricordi troppo dolorosi per potere accettare “solo” un argento. Specie se in uno sport così importante come il pingpong. A parità di commenti negativi però, sono molti gli utenti che si sono scagliati contro “i diavoli giapponesi senza talento”, anche chiamati i “cagnacci giapponesi”. Una partita “senza spirito olimpico” dove, stando gli agguerriti commentatori di Weibo, la coppia giapponese Yu Mengyu e Mima Ito avrebbe commesso dei falli mai registrati dall’arbitro. Un atteggiamento scorretto che, secondo la narrativa nazionalista dispiegata sui social, ha le sue radici nell’invasione nipponica della Manciuria. Lo si legge nel meme più cliccato del thread sul tennistavolo, che cita: “Non parliamo nemmeno del Giappone, altrimenti comincio a imprecare dai fatti del 18 settembre 1931 fino al giorno in cui hanno violato le regole ai giochi olimpici 2021”. Non è certo la prima volta che la Cina perde un oro che credeva di avere già in tasca (come ricorda bene Wang Yifu dopo aver perso all’ultimo sparo ad Atlanta 1996 contro l’azzurro Di Donna), ma i tempi sono cambiati e gli errori non si perdonano. Si gioca per vincere. Si gioca per non perdere la faccia.
A fare ancora più male del secondo posto nel tennistavolo è stato l’argento nel badminton doppio maschile, dove la coppia cinese Liu Yuchen e Li Junhui ha perso nella finalissima contro Taiwan, presente ai giochi come Taipei Cinese. “Potete perdere con tutti ma non contro i separatisti taiwanesi”, scrive disperato un utente, commentando quanto sia stato oltraggioso per la Cina rimanere ad ascoltare “l’inno della bandiera” di Taipei (nonostante né bandiera né inno utilizzati alle Olimpiadi siano quelli ufficiali di Taiwan). Gli utenti di Weibo se la sono presa anche con uno dei vincitori del team taiwanese, Lee Yang, che su Facebook ha scritto: “Dedico la vittoria al mio paese, Taiwan”. Pronta la risposta dell’armata social, che ha riempito le schermate con bandiere cinesi, per contrastare quello che qualcuno ha definito “il giorno più ingiurioso del badminton maschile”. Amarezza per la sconfitta contro Taiwan, sì, ma fino a un certo punto. Il pubblico cinese si rincuora pensando che, alla fine dei conti “a prescindere da quello che pensano le ranocchie, Taiwan è solo una provincia della Cina”. Una trama rafforzata anche dall’immagine del medagliere con caratteristiche cinesi comparso sui social a fine Olimpiadi, dove le medaglie vinte dalla Cina diventano improvvisamente 106, perché includono le vittorie di Hong Kong (ai giochi come Hong Kong, Cina) e Taiwan (Taipei Cinese).
Si affliggono gli atleti cinesi, che di fronte alle derive del nazionalismo popolare online si sono sentiti in dovere di scusarsi per il “fallimento” in gara: “Mi sento di aver deluso la squadra, scusatemi tutti, mi dispiace”, ha detto Xu Xin, in lacrime, dopo la finale di ping pong. “Mi dispiace enormemente”, ha scritto invece su Facebook il giocatore di badminton Li Junhui dopo essersi congratulato con i taiwanesi per la vittoria. Delle scuse pubbliche che ricordano un’autocritica maoista e che dimostrano ancora una volta quanto per il team Cina le Olimpiadi siano necessariamente intrecciate alla posizione della Rpc nello scacchiere geopolitico globale.
Sì, perché la squadra che si è presentata a Tokyo 2020 non ha avuto paura di essere politica e ha riflesso, nel suo atteggiamento, le ambizioni della Cina di oggi: è una Cina fiera, estremamente esigente con se stessa e sfrontata all’esterno, perfino impertinente. È la Cina che ha l’ardire di indossare spille raffiguranti il presidente Mao Zedong durante una cerimonia di premiazione. Che vince i 200m di nuoto a farfalla perché “ispirata dallo spirito nazionale”. Che dedica la vittoria dei pesi massimi al Partito Comunista. Una Cina che si prepara a ospitare i giochi invernali di Pechino 2022 a testa alta, sentendosi già vincitrice morale, in anticipazione dei successi a venire.
Di Lucrezia Goldin
*Studiosa di Cina, da poco laureatasi con lode al Master of Arts in Chinese Studies presso la Leiden University. Specializzata sui temi di nazionalismo popolare e cyber governance si interessa anche di cinema e identità culturale. Nel 2017 è stata assistente alla ricerca per il progetto “Chinamen: un secolo di cinesi a Milano”. Dopo aver trascorso gli ultimi tre anni tra Cina e Paesi Bassi, ora scrive di Cina e cura per China Files la rubrica “Weibo Leaks: storie dal web cinese”
Giornalista praticante, laureata in Chinese Studies alla Leiden University. Scrive per il FattoQuotidiano.it, Fanpage e Il Manifesto. Si occupa di nazionalismo popolare e cyber governance si interessa anche di cinema e identità culturale. Nel 2017 è stata assistente alla ricerca per il progetto “Chinamen: un secolo di cinesi a Milano”. Dopo aver trascorso gli ultimi tre anni tra Repubblica Popolare Cinese e Paesi Bassi, ora scrive di Cina e cura per China Files la rubrica “Weibo Leaks: storie dal web cinese”.