Weibo Leaks – Mahjong texano e kimchi cinese: casi di appropriazione culturale

In Cultura, Economia, Politica e Società, Innovazione e Business, WeiboLeaks by Redazione

Gli italiani hanno scala quaranta, gli inglesi il bridge, per i cinesi è invece il mahjong (麻将, májiàng) l’indiscusso protagonista dei pomeriggi di svago tra amici e famigliari. Considerato da molti come “la quintessenza della cultura cinese”, il gioco da tavolo con le caratteristiche 144 tessere di bambù offre ancora oggi occasione per milioni di cinesi in tutto il mondo, soprattutto i più anziani, di trovarsi in parchi o sale gioco e continuare una tradizione risalente alla dinastia Qing. Non sorprende dunque che la comunità sino-americana si sia infervorata dopo che un’azienda di Dallas, Texas, ha lanciato i suoi set di Mahjong dal design “moderno”, in cui i numeri cinesi sono stati sostituiti da quelli arabi e i disegni e caratteri delle tessere reinterpretati con motivi floreali, palme e sacchi di farina.

La Mahjong Line, fondata lo scorso novembre, propone tre diversi set dai colori brillanti e con nomi ammiccanti (rispettivamente Botanical, Cheeky e Minimal), pensati per un pubblico prettamente femminile. Secondo quanto riportato dalla fondatrice Kate LaGere sul sito ufficiale della compagnia, l’idea era proporre un design “alla moda”, che “riflettesse quanto è divertente il gioco”, rispetto alle tradizionali tessere che “anche se belle, sono tutte uguali” e “talvolta confusionarie”.

L’eliminazione degli elementi tipicamente cinesi, insieme al linguaggio utilizzato per promuovere il prodotto, hanno incontrato le critiche della comunità sino-americana online, che su Twitter ha accusato l’azienda di appropriazione culturale e gentrificazione. “A quanto pare la nuova moda è colonizzare Mahjong” ha commentato un utente, unendosi al coro di coloro che hanno ritenuto offensivo che a rivisitare un elemento culturale cinese siano state tre donne bianche. A tal proposito anche la rappresentante alla camera per lo stato di New York (di origini taiwanesi) Grace Meng ha dichiarato: “Non cambiate la mia storia e cultura per renderla di vostro gradimento”.

La vicenda è diventata popolare anche su Weibo, dove in molti si sono raccolti nel commentare l’accaduto ed esprimere supporto nei confronti dei “compagni oltreoceano”. Nelle seconda settimana di gennaio l’hashtag #AziendaAmericanaLanciaunNuovoMahjong ha raccolto oltre 23 milioni di visualizzazioni. Gli utenti di Weibo hanno criticato l’implicito senso di superiorità degli americani, e hanno espresso disappunto per l’ alterazione delle tessere, considerandola “una mancanza di rispetto alla tradizione e un furto alla cultura cinese”. A sconcertare particolarmente il web cinese è stata inoltre la decisione della Mahjong Line di stampare le nuove grafiche sulle pedine invece che intagliarle. I caratteri e disegni delle tessere del gioco originali sono infatti creati tramite incisioni, una peculiarità che dà vita alla pratica del mopai (摸牌, letteralmente: tastare le pedine), ovvero il riconoscere la tessere al solo tocco. Una caratteristica considerata da molti indispensabile per il godimento del gioco.

A dominare il dibattito su entrambi i social è stato quindi il concetto di appropriazione culturale, pensiero alla base dell’oltraggio percepito dalla comunità cinese. Per appropriazione culturale si intende l’utilizzo da parte di una cultura “dominante” di elementi di un’altra cultura senza che a quest’ultima sia dato il giusto riconoscimento. La cultura dominante sfrutta questo elemento per trarne profitto (in termini economici o sociali) e lo assimila nelle proprie tradizioni, contribuendo così a rinforzare stereotipi e ad asserire superiorità nei confronti di un’altra comunità.

In altre parole, l’appropriazione culturale è quella serie di meccanismi che porta, per esempio, gli americani ad atteggiarsi come se avessero inventato lo yoga e l’avocado toast.

La reinterpretazione consapevole di un motivo artistico o di una tradizione non è infatti elemento sufficiente per dare luogo a una controversia. Nel caso del mahjong, per esempio, i brand di lusso Tiffany&Co. e Hermes hanno entrambi proposto i loro set da gioco personalizzati, vendendoli a cifre attorno ai 15.000 dollari, con una campagna mediatica rivolta a rendere omaggio alla cultura cinese. Il linguaggio attorno alla vendita della Mahjong Line invece, è risultato accondiscendente a detta di molti, anche nel tentativo di riparare al danno commesso.

A seguito della controversia, l’azienda texana ha pubblicato delle scuse ufficiali, ma pur ammettendo di avere “mancato di porre il giusto omaggio all’origine cinese del gioco”, ha dichiarato di aver pensato al prodotto come un modo per coinvolgere “una nuova generazione di giocatori di majhong americano”. Una scusa a metà, insomma, non priva di problematiche. Perché se è vero che una variante americana del gioco esiste, ed è riconosciuta ufficialmente dalla National Mah Jongg League, è altrettanto importante ricordare che quando il mahjong si è diffuso negli Stati Uniti negli anni 20 del ‘900, la comunità asiatica in America veniva sistematicamente discriminata. Non solo, gli studi condotti dalla sociologa Annelise Heinz dimostrano come il mahjong sia stato fondamentale in quegli anni per consolidare la sopravvivenza culturale di diverse minoranze etniche, tra cui la comunità cinese e quella delle donne ebree. Di conseguenza, proporre nel ventunesimo secolo un prodotto così alterato nelle sue caratteristiche intrinseche, e giustificarsi asserendo che non si tratta di mahjong ma di mahjong americano, rischia in ultima istanza di privare di valore la tradizione culturale dell’originale, ignorando l’importanza di una pratica sociale forgiata in un contesto prevalentemente xenofobo, e aggiungendo invece una spolverata alla “mangia, prega, ama” per andare incontro al gusto di un pubblico giovane, facoltoso, e probabilmente bianco.

Come sempre però, la Cina non è priva di contraddizioni, e nella stessa settimana in cui gli utenti di Weibo hanno accusato gli americani di appropriazione culturale e plagiarismo, sono stati ripagati con la stessa moneta dai vicini coreani. In questo caso a creare turbamento online è stata la vlogger cinese Li Ziqi, famosa per i video-tutorial dal carattere bucolico che illustrano la sua vita rurale tra le montagne del Sichuan. Il 9 gennaio ha ripostato sul suo canale Youtube un vecchio video che la mostra intenta a preparare il kimchi, il cavolo fermentato piccante tipicamente coreano, utilizzando l’hashtag #CucinaCinese.

La reazione del pubblico coreano non si è fatta attendere e in molti hanno criticato l’arroganza cinese nel rivendicare la pietanza. La questione ha risollevato una diatriba in corso tra Cina e Corea del Sud circa la provenienza del piatto, deflagrata lo scorso novembre quando il Global Times, testata cinese in lingua Inglese, ha festeggiato la standardizzazione del paocai sichuanese (泡菜, verdure fermentate), descrivendo la Cina “leader nel settore di produzione del kimchi”. Secondo diversi commentatori coreani, kimchi e paocai sarebbero diversi per ingredienti e modalità di preparazione, e dunque l’atteggiamento del Global Times e di Li Ziqi che tenta di sovrapporre i due nomi nell’immaginario comune non è altresì che una forma di appropriazione culturale.

Ciò nonostante, l’influencer sichuanese non ha dovuto sopportare a lungo le critiche, perché in suo aiuto è accorsa la cavalleria di Weibo. L’hashtag #LiZiqiPreparaIlKimchi ha già raggiunto 69 milioni di visualizzazioni e la gran parte degli utenti ha difeso Ziqi, sostenendo che la cultura coreana deve il suo successo all’influenza cinese. “La maggior parte del kimchi venduto in Corea del Sud viene dalla Cina. Abbiamo il diritto di determinarne gli standard”, ha commentato un utente. “Avrete anche inventato il kimchi…“ ha detto un commentatore decisamente più infervorato “..ma noi abbiamo inventato voi”. Tra gli utenti di Weibo c’è anche chi ha paragonato la questione del kimchi all’incidente della Mahjong Line, dichiarando che “la Corea del Sud è figlia dell’America” e che “i coreani sanno solo copiare”. Alcuni si sono poi rivelati preoccupati per il crescente trend di appropriazione, sostenendo che “è esattamente come quando i coreani hanno usato gli abiti della dinastia Ming e li hanno trasformati nel loro vestiario tradizionale, per poi dire che è l’hanfu cinese è copiato dal loro. Sarà così anche con il mahjong?”.

Lo scambio di elementi culturali è un fenomeno inevitabile nella società globalizzata in cui viviamo, ed è incrementato dalla capacità delle tecnologie di informazione e comunicazione di ridurre gli spazi fisici, rendendo casi come questi sempre a portata di clic per gli spettatori di tutto il mondo. Gli ibridi culturali saranno a volte bizzarri (mai sentito parlare dei Baozza? I baozi alla pizza?), ma quello che rimane cruciale è conservare la consapevolezza della moltitudine di comunità con cui abbiamo a che fare ogni giorno e delle sottotrame di prevaricazione e sfruttamento che spesso le caratterizzano, e che diamo per scontate. Soprattutto, sarà sempre più importante riflettere questa consapevolezza nel linguaggio che utilizziamo, specie quando si va a reinterpretare elementi culturali che per alcuni hanno un valore inestimabile.

di Lucrezia Goldin

*Studiosa di Cina, da poco laureatasi presso la Leiden University. Specializzata sui temi di nazionalismo e cyber governance