Secondo un rapporto pubblicato lo scorso anno dal Business and Human Rights Resource Center di Londra, tra il 2013 e il 2020, si sono registrate 181 accuse di violazioni di diritti umani legate agli investimenti cinesi in Africa.
Nell’agosto 2021 su Twitter spunta un video: un cinese fustiga ripetutamente con una corda un ex dipendente africano legato a un palo. L’uomo, accusato di furto, cerca di ritrarsi mentre viene colpito ripetutamente sulla testa. Non è chiaro quando l’episodio sia avvenuto. Sappiamo però dove: nella miniera cinese di Rutsiro, nella Provincia Occidentale del Ruanda, sulla sponda est del lago Kivu.
La clip, diffusa dal quotidiano locale The Chronicles, ha generato immediatamente la reazione indignata dell’opinione pubblica africana. Nel giro di pochi giorni, Sun Shujun, questo il nome del manager seviziatore, è stato arrestato e a fine di aprile condannato a venti anni di carcere per tortura.
Il caso ha ottenuto visibilità internazionale per almeno due motivi. Non solo perché è uno dei pochi episodi in cui un cittadino cinese è stato processato in Africa anziché venire estradato in Cina; i contatti politici coltivati per decenni da Pechino nel continente permettono spesso ai trasgressori di aggirare la giustizia africana. Ma soprattutto quello di Rutsiro è solo l’ultimo di una lunga serie di casi violenti ad aver coinvolto expat cinesi in Africa. Appena due mesi prima in Sierra Leone un funzionario della China Railway Seventh Group aveva assalito dei dipendenti locali. A stretto giro due connazionali sono stati arrestati nella Repubblica democratica del Congo per aver ordinato alle forze armate locali di picchiare un minatore africano.
Secondo un rapporto pubblicato lo scorso anno dal Business and Human Rights Resource Center di Londra, tra il 2013 e il 2020, si sono registrate 181 accuse di violazioni di diritti umani legate agli investimenti cinesi in Africa. La maggior parte degli incidenti è avvenuta in Uganda, Kenya, Zimbabwe e Repubblica democratica del Congo. I paesi in cui la Cina è più presente.
Negli ultimi vent’anni, il gigante asiatico ha costruito nel continente migliaia di chilometri di ferrovie, centinaia di strade e ospedali. Ha avviato progetti minerari ed energetici. L’arrivo dei capitali cinesi è stato accompagnato da una massiccia ondata migratoria. Per anni l’arrivo di forza lavoro cinese in Africa si è mantenuta intorno alle 200.000 unità per poi diminuire leggermente nel 2019 a quota 183.000. La convivenza con la popolazione locale non è mai stata semplice.
Se i cinesi lamentano l’indolenza e la scarsa produttività dei lavoratori locali, gli africani denunciano stipendi da fame e mancanza di equipaggiamento di sicurezza nei cantieri. Il problema ha raggiunto proporzioni tali da aver costretto le autorità cinesi – un tempo inclini a trattare le violazioni come “casi isolati” – a intervenire sempre più spesso. Recentemente l’Ambasciata cinese in Namibia ha pubblicato su WeChat una guida per indottrinare gli espatriati cinesi su come comportarsi a lavoro e come evitare di trasgredire le leggi locali. Oltre a fornire linee guida per dirimere le controversie salariali con i lavoratori africani, il vademecum consiglia di non brandire armi da fuoco per minacciare il personale, non “intimidire o costringere” i dipendenti in sciopero e cercare sempre di domare le proteste coinvolgendo le autorità locali.
La pronta risposta della diplomazia cinese segna una svolta rispetto all’usuale “laissez faire”. Il motivo è comprensibile. La risonanza mediatica degli abusi rende ormai necessario contenere il danno reputazionale. Come in altre parti del mondo solcate dalla Belt and Road Initiative, anche in Africa, da tempo Pechino fronteggia l’accusa di “neocolonialismo”. Ma più che in altre parti del mondo, proprio in Africa, l’etichetta infamante ha ripercussioni politiche importanti. Per la leadership comunista, il continente oltre l’Oceano indiano non ha mai avuto solo un’importanza economica. Non l’aveva per la Cina di Mao durante la guerra fredda. Non ce l’ha nemmeno oggi che il gigante asiatico è determinato a sfruttare il Sud globale per controbilanciare le alleanze americane tra “like-minded countries”.
L’impressione condivisa è che il comportamento disdicevole di alcuni stia compromettendo l’immagine di tutti. Così che a pagare il prezzo sarà la comunità diasporica cinese, non solo i vari Sun Shujun. Anche chi realmente pensa che arricchirsi sia più glorioso se a beneficiarne è anche la popolazione locale.
Un imprenditore noto su WeChat con il nickname di “Africa Bob”, commentando quanto avvenuto in Ruanda, ha accusato i connazionali di razzismo: “Spero che un giorno i cinesi possano essere rispettati in Africa… e questo richiede gli sforzi di tutti”, scrive Bob invitando gli altri expat a seguire alcuni accorgimenti come fornire contratti di lavoro, evitare battute sessuali e smettere di criticare i lavoratori di fronte ai colleghi.
Più facile a dirsi che a farsi. Le cause del problema infatti spaziano dalla bassa qualità dell’immigrazione cinese in Africa (i più istruiti scelgono mete meno ostiche), alla mancanza di uno spirito di accettazione nei confronti di popoli e civiltà diverse. Un “suprematismo culturale” che l’ex Celeste Impero si porta dietro dall’età imperiale, quando la Cina era – come dice il nome stesso – Zhong Guo: il “Paese di Mezzo”. Il centro del mondo. In tempi recenti la strabiliante crescita del Pil nazionale ha aggiunto una dimensione economica al fenomeno.
I sintomi di questo “eccezionalismo” cinese sono emersi pochi giorni fa nell’inchiesta della BBC Racism for Sale. Nel servizio, Runako Celina, reporter specializzata in relazioni sino-africana, indaga l’inquietante industria dei video messaggi: clip di pochi secondi in cui africani di ogni età – compresi bambini – vengono pagati una manciata di dollari per recitare frasi in mandarino (talvolta degradanti) senza saperne il significato. Un giro d’affari difficile da calcolare esattamente, ma che dalla pervasività sui social network e i siti cinesi di e-commerce sembra attestare un elevato grado di interesse tra la classe media urbana.
Dietro alla “pornografia della povertà” c’è molta leggerezza: pochi in Cina sono consapevoli di cosa avviene nel backstage. Ma quella leggerezza può avere ricadute ad ampio raggio: rischia infatti di consolidare una narrazione antitetica rispetto alla retorica ufficiale dell’amicizia Sud-Sud. La credibilità dell’agenda di Pechino si decide tra le miniere africane e la blogosfera cinese.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Gariwo]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.