Un ex funzionario di partito dello Henan è stato giustiziato per violenza sessuale su 11 ragazze. E’ da poco meno di un decennio che in Cina il problema è letteralmente esploso. Secondo qualcuno, dipenderebbe proprio dallo sviluppo economico cinese. Li Xingong, 44-anni, ex vice capo del Partito Comunista di Yongcheng, è stato giustiziato ieri per aver violentato 11 ragazze nella provincia dell’Henan. Era stato arrestato dalla polizia nel maggio del 2012, mentre all’interno della propria auto stava abusando di una minorenne di fronte a una scuola media locale. A seguito delle indagini, era emerso che la più giovane delle vittime di Li aveva solo 11 anni.
Se non è una psicosi, poco ci manca. In Cina si moltiplicano i casi di abusi su minori e cresce la rabbia dell’opinione pubblica, anche perché gli aggressori sono spesso uomini di potere. Il governo centrale ha di recente reso noto di avere ordinato alle corti di giustizia locali di applicare sentenze dure e inflessibili. Ed ecco che Li Xingong appare come il tipico caso in cui il potere cinese lancia un messaggio urbi et orbi: colpirne uno per educarne cento.
È un tipico male della “nuova Cina”, quello della violenza sui minori: forse perché una società più complessa e complicata induce comportamenti più deviati; forse invece perché solo oggi si parla di ciò che c’è sempre stato.
Sta di fatto che di questi tempi ci si interroga parecchio su come stroncare il fenomeno. I media moltiplicano i racconti sugli episodi di violenza, le istituzioni ragionano su come rendere più dure le pene.
Avere rapporti sessuali con un minore di 14 anni era considerato automaticamente stupro prima di un emendamento del codice penale che risale al 1997, che ha introdotto il reato di “adescamento di un minorenne”. I colpevoli di stupro possono essere condannati a morte, mentre agli “adescatori” si può comminare una pena massima di 15 anni. Da tempo però, per proteggere meglio i minori, i giuristi cinesi chiedono l’abolizione del reato di adescamento e il ritorno alla pena massima.
La Cina non ha dati specifici che riguardano i casi di abusi sui minori. Un rapporto del 2004, che riguarda il quartiere Chaoyang di Pechino, riportava 20 casi di reati sessuali che coinvolgevano 49 vittime minorenni. Di queste, il 74 per cento erano ragazze, il 40 per cento aveva subito uno stupro mentre le altre erano state molestate.
Al di là dell’emozione del momento e degli aspetti penali, la Cina si interroga anche su come affrontare il problema nel suo complesso.
La dottoressa Long Di, dell’Istituto di Psicologia presso l’Accademia Cinese delle Scienze, ha detto al South China Morning Post che la società tende generalmente a “incolpare le madri e incolpare le figlie, come se le donne fossero responsabili di tutti i crimini sessuali”. Nulla di nuovo, verrebbe da dire, ma la specificità cinese consiste anche in questo caso nel fatto che il piano culturale e istituzionale non ha tenuto il passo con lo sviluppo economico, le trasformazioni sociali e i comportamenti.
Così, la dottoressa Long ricorda che nel 2003 – quando ha cominciato con alcuni colleghi un’attività si sostegno per i minori vittime di abusi sessuali – si è sentita totalmente impotente a causa dell’assoluta mancanza di conoscenza e consapevolezza da parte dei ragazzi.
Il problema più grande – a suo avviso – consiste nel fatto che i bambini cinesi vivono in un ambiente non protetto, in cui né i genitori né le scuole sono in grado di spiegare loro che cos’è un abuso sessuale. E a differenza di Hong Kong e Taiwan, la Cina continentale non ha un corpo di leggi sistematico per prevenire e punire i pedofili.
C’è poi il gap culturale prodotto dalla diseguaglianza tra città e campagna e tra varie aree della Cina. Guo Yongshui, coordinatore di un centro di consulenza psicologica che si occupa del problema, gestisce un piccolo programma di supporto in due scuole rurali nella provincia dell’Hebei.
“La sessualità è un argomento che le persone che vivono nelle zone rurali non sono disposte ad affrontare”, racconta al quotidiano di Hong Kong. “Se si parla troppo di sessualità a scuola, la gente sospetta immediatamente che ci sia qualcosa di sbagliato”.
Guo racconta che alcune scuole hanno rifiutato di partecipare al suo programma di sensibilizzazione. Due istituti hanno accettato solo dopo che il titolo del programma è stato cambiato da “Pedofilia” a “Educazione alla sicurezza”. Ciò nonostante, il corso ha coinvolto più di 700 alunni delle scuole elementari della zona e i genitori l’hanno accolto con favore.
È una lotta quotidiana contro il “conservatorismo” e la mentalità di una zona dove “la stabilità viene prima di tutto”. Ed eccoli, i sacerdoti della stabilità a ogni costo: “[I funzionari] di solito pensano che se appoggiano [il programma di sensibilizzazione], ciò significa far sapere che il problema esiste. Se non fanno nulla, nessuno si preoccuperà di agire e loro – conclude Guo – se ne staranno al sicuro”.
[Scritto per Lettera43; foto credits: theatlantic.com]