<china-files_intro> Pubblichiamo di seguito la traduzione ad un articolo apparso il 16 marzo 2010 nel sito spanish.china.org.cn. All’entrata di un ristorante cinese, in una zona internazionale di Pechino, è apparso un cartello con la frase “Vietato l’ingresso ai giapponesi”. I seguenti due articoli riguardano le reazioni di una europea, spagnola e di una cinese. </china-files_intro>
La frase “Vietato l’ingresso ai cani e ai giapponesi”, parafrasa il messaggio che si poteva leggere nel famoso cartello collocato all’entrata del parco Huangpu nell’antica concessione britannica di Shanghai, secondo cui ai cinesi, al pari dei cani, era vietato l’ingresso al suo interno. Il luogo dove è stata scattata l’istantanea, un piccolo ristorante situato in uno dei quartieri alla moda di Pechino, era amministrato da un’amabile signora con eccellenti abilità culinarie, ma a quanto sembra ha cambiato proprietario.
Malgrado il freddo della notte pechinese, sono rimasta ferma alla porta con la bocca aperta per più di dieci minuti, senza essere capace di reagire. Alla fine e nonostante il borbottare dello stomaco, mi sono girata stupefatta e sono andata a cercare un altro posto per cenare, chiedendomi se ci sia qualcosa che possa giustificare l’esistenza di un cartello del genere.
Riguardo ai precedenti, nonostante alcuni affermino che quel cartello non sia mai esistito, quel che è certo è che in quell’epoca ad alcuni cittadini cinesi era davvero proibito l’ingresso non solo al parco di cui sopra, ma anche a tutti gli altri locali nella zona delle concessioni, per lo meno in assenza di una autorizzazione apposita. E, come tutti sappiamo, è sempre stata caratteristica propria dei colonizzatori europei ostentare un razzismo esacerbato ovunque fossero. Quello che non capisco è se il cartello in questione si mantenne durante l’epoca dell’occupazione giapponese, come mostra la famosa scena del film di Bruce Lee “Il furore della Cina colpisce ancora”, o se il film vuole solo utilizzare questo vecchio simbolo per denunciare le ingiustizie commesse dai giapponesi contro i cinesi negli anni quaranta.
Mito o realtà, sembra che il messaggio sia sceso in alcuni settori della società cinese in una forma, a mio avviso, preoccupante. Dopo l’incidente, ho deciso di investigare e ho realizzato che questo non è l’unico esempio che si possa incontrare nei locali del paese. Nel dicembre del 2004, il Next Magazine di Hong Kong pubblicò una notizia riguardante un locale di Shenzhen, conosciuto come “Il grande lupo grigio” che, da quando ha aperto nove anni fa, espone un cartello che vieta l’ingresso ai giapponesi. Un altro bar, questa volta a Chongqing, ostenta un cartello dove si legge “Non accettiamo giapponesi in questo locale”, mentre nel Jilin un altro ristorante noto come 6Park annuncia che “I giapponesi devono chiedere scusa (per l’invasione giapponese in Cina) prima di entrare” o non verrà loro fatto servizio, aggiungendo che in caso di scuse, verranno serviti con piacere, visto che queste persone stanno dando il giusto valore alla storia, così come è dovuto.
Tanto oggi come allora, questi messaggi sono indubbiamente denigratori e pertanto spregevoli, senza che nessun argomento sia capace di giustificarli. Rappresentano il peggio che le società umane sono stato capaci di generare, sono l’espressione di cattiveria le cui conseguenze sono rimaste chiare per tutti, un errore del passato di cui è necessario apprendere onde evitare di cadere di nuovo in esso. Indubbiamente, il popolo cinese conserva nella sua memoria collettiva l’esperienza della segregazione e delle umiliazioni sofferte, così come molti europei, ebrei o meno, conservano. Perché in Europa, nell’Europa che molto tempo fa consentiva che questo cartello fosse esposto nei lontani territori orientali della Cina, tornarono a scrivere, anni dopo, altri cartelli che trasformavano il proprio popolo europeo in una vittima di queste idee fanatiche e ripudiabili.
Per questo oggi un cartello così sarebbe impossibile da proporre nella vecchia Europa, già troppo addolorata in sé stessa, troppo impaurita da sé stessa, alla quale resta ancora negli occhi un riflesso di orrore. Nessun ebreo, nessun omosessuale, nessun comunista accetterebbe che nelle strade della sua città si possano leggere cartelli che proibiscano l’ingresso ad un locale a quelli che li hanno massacrati. Il ricordo, troppo vivo ancora, di quello che nessuno, indipendentemente di chi fosse o di cosa avesse fatto, dovrebbe sentirsi obbligato a soffrire, lo farebbe indubbiamente torcere dal dolore.
E, dunque, perché nella nuova Cina sono possibili queste tipo di espressioni? È questa Cina troppo nuova, malgrado tutto, troppo incosciente di sé stessa e della sua storia? O è più incosciente del suo futuro, come prima lo fu la vecchia Europa? In realtà, non c’è neanche da drammatizzare. Non credo che questa attitudine sia comune né tanto meno propria della società cinese, né che i cittadini cinesi in generale vedano di buon occhio queste dure manifestazioni antigiapponesi, e nonostante il profondo e incomprensibile malessere che provoca tra i cinesi il solo menzionare quegli anni di terrore, la società cinese è molto lontana da alzare le torce contro il popolo giapponese.
Però non per questo il fenomeno smette di avere una serietà enorme ed è indubbiamente necessario fermarlo. Il fatto che questo tipo di manifestazioni non sveglino reazioni né critiche generalizzate in Cina significa solo che vengono in qualche maniera giustificate o che, in ogni caso, non portano alle conseguenze che ci si aspetterebbe tra la popolazione. C’è gente che mangia in questo posto ogni giorno, quando a me la sola idea fa rivoltare lo stomaco.
C’è qualcosa, senza dubbio, che dà speranza ed è che, da qualche mese, al posto della modesta pittura che si vede oggi sulla parete grigia, c’era un cartello a caratteri rossi sopra un fondo bianco che potremmo quasi qualificare come pubblicitario. O qualcuno è andato a denunciare l’esistenza di questo cartello o le stesse autorità hanno preso l’iniziativa di ritirarlo. Sebbene però, in molti altri posti, come si nota facilmente con l’aiuto di internet, questo non è successo.
La storia ha dimostrato quale sia il rischio che implica coltivare queste fobie tra il popolo o mostrarci indifferenti di fronte alla sua esistenza. È necessario, al contrario, combatterle e provocare le reazioni della società attraverso di esse. Ricordando precisamente la controversa posizione del governo giapponese di fronte al massacro che le sue truppe perpetrarono in territorio cinese, mi viene solo da pensare quanto sia pericolosa l’indulgenza nei confronti degli uni come degli altri.