I videogame sono probabilmente il media più comunitario che esiste, soprattutto grazie alla massificazione di internet che ha permesso la nascita, e lo sviluppo, di comunità videoludiche sempre più grandi e stratificate, dove la passione verso un determinato gioco diventa solamente uno dei criteri d’appartenenza.
Parliamo di un vero e proprio fenomeno globale, un settore che è diventato più profittevole di Hollywood e che nel 2020 ha generato introiti per 165 miliardi di dollari. L’Occidente ha ormai una tradizione consolidata con il media, oltre ad essere una delle sue culle assieme al Giappone, ma spesso, e in conseguenza di questo primato, abbiamo difficoltà ad allargare il nostro spettro analitico. Quando si parla di Cina e videogiochi subentra spesso una dimensione quasi orientalista, come se Pechino non fosse pienamente coinvolta nelle dinamiche globali che caratterizzano la fruizione del media e si trovasse fuori dalla nostra realtà. Tuttavia, il mercato cinese è uno dei più floridi e appetibili del panorama globale e diverse holding hanno investito ingenti capitali nel settore dell’intrattenimento videoludico.
Secondo i più recenti dati comunicati da Feng Shixin, vice direttore dell’ufficio editoriale del Dipartimento Centrale della Propaganda, la filiera videoludica cinese genera un introito annuo di circa 30 miliardi di dollari, soprattutto grazie al lavoro di circa 6.000 aziende di settore, tra cui 200 controllate pubbliche. La platea di giocatori stimati è di circa 600 milioni. Il fiore all’occhiello di Pechino non può che essere Tencent, holding tentacolare con sede a Shenzhen che, nel bene e nel male, è diventata sempre più nota ai giocatori di tutto il mondo. Tencent è salita alla ribalta nel 2011 grazie all’acquisizione di Riot Games, studio di sviluppo conosciuto per il famosissimo e giocatissimo League of Legends, per poi espandere il suo raggio d’azione grazie a investimenti sempre più azzeccati. Per esempio, è stata una delle prime aziende a investire in Epic Games, acquisendone circa il 40% nel 2012. Per chi di voi vivesse in una grotta, si tratta degli sviluppatori del fenomeno globale per antonomasia del nostro tempo, ossia Fortnite, e recentemente si son resi protagonisti di una sfida senza precedenti con Apple. Tencent è poi entrata, come socio di minoranza, in altri due colossi dell’industria videoludica, detenendo circa il 5% di Activision-Blizzard e di Ubisoft.
Quali sono le motivazioni dietro questi investimenti, e perchè sono così rilevanti? In primis, Tencent non è solo una delle aziende più influenti e profittevoli del mondo, ma è anche una rappresentazione della forza cinese nel mondo del tech. Inoltre il Partito Comunista Cinese (PCC) ha forti legami con la compagnia, ed è in grado di esercitare un’influenza circa il ruolo della stessa nel panorama nazionale e internazionale. Per esempio, Tencent viene spesso investita del ruolo di distributore di nuovi prodotti, una volta passato il controllo governativo, come ad esempio console e videogames. Il mercato videoludico cinese non è infatti libero. Prima di poter entrare in commercio in Cina, i videogiochi devono passare il vaglio di una commissione etica, la State Administration of Press and Publications (SAPP) istituita nel 2018, che li giudicherà idonei, o meno, ad essere poi immessi sul mercato.
Andando oltre le rilevanti questioni economiche, Pechino si è progressivamente interessata al mondo dei videogames perchè ne ha colto il grande potenziale sociale e politico, e ha capito che la narrazione globale passa anche attraverso questo medium. Di conseguenza, la Cina non ha nessuna intenzione di starne fuori e di non aver voce in capitolo, lasciando agli altri la possibilità di descriverla e definirla.
Questo desiderio di controllo si esprime sia nello sviluppo interno che nella distribuzione di produzioni estere, aspetto che è particolarmente interessante per comprendere l’approccio della Repubblica Popolare verso le nuove forme di comunalismo telematico, a maggior ragione nel momento storico che stiamo attraversando, dove solidarietà e mutualismo sono sempre più messe a repentaglio.
Da questa prospettiva, un caso particolarmente rilevante è quello di Animal Crossing: New Horizons, uno dei più grandi successi del 2020 videoludico. Il titolo Nintendo, uscito su Switch il 20 marzo, è diventato molto rapidamente uno dei più grandi successi commerciali dell’anno, piazzando 26 milioni di copie in circa 9 mesi. Animal Crossing è un life simulator, ossia un gioco incentrato sulla creazione di una routine di attività e interazioni con altri personaggi. Inizialmente verremo trasportati su un’isola completamente deserta, che dovremo progressivamente trasformare a nostro piacimento. Non potremo solo modificarne la morfologia, decidere quali frutti piantare, come costruire e decorare la nostra abitazione e saldare i nostri debiti con Tom Nook, ma potremo ospitare nuovi villager per poi invitarli a stabilirsi sull’isola. La componente multiplayer è una delle più apprezzate dell’intera produzione, permettendoci di invitare gli amici a visitare la nostra isola e condividere così i nostri risultati e le nostre creazioni. Animal Crossing è infatti dotato di un profondo editor che permette al giocatore di creare oggetti, poster, ritratti, con le trame più disparate. Non deve quindi stupire che, proprio all’inizio di un lockdown globale, sia diventato il titolo più streammato su Twitch e YouTube.
Questo preambolo da «consigli per gli acquisti» è necessario per comperendere il «problema» che ha Pechino con un titolo incentrato sulla condivisione, sia materiale che empatica. Come accennato in precedenza, la console Nintendo Switch è entrata in commercio in Cina, via Tencent, circa un anno fa, assieme a una veramente ristrette schiera di titoli che hanno passato lo scrutinio del SAPP. Animal Crossing è entrato nel radar del Partito ancor prima di iniziare qualsiasi iter di approvazione, proprio a causa della sua dimensione social.
In un momento in cui non era possibile scendere fisicamente in piazza, il gioco ha fornito una piattaforma alternativa, una vera e propria piazza virtuale, dove movimenti di protesta potevano condividere messaggi e creare partecipazione dal basso. Joshua Wong, il principale volto della protesta hongkonghina, ha velocemente approfittato di questa feature, mostrando la sua isola su YouTube e condividendo delle immagini sul suo profilo twitter. L’isola di Wong è caratterizzata da uno striscione che recita «Free Hong Kong – Revolution Now», oltre ai ritratti di Xi Jinping e di Carrie Lam. Intervistato da Wired, Wong ha dichiarato che «Animal Crossing è uno spazio privo di qualsiasi censura politica, quindi un posto ideale per portare avanti la nostra lotta». Ovviamente le sue creazioni son state messe a disposizione della community, e tanti altri utenti, non solo ad Hong Kong, hanno deciso di addobbare la loro isola con lo striscione, o con il ritratto di una piangente Carrie Lam.
La risposta di Pechino non si è fatta attendere. Oltre a bloccare qualsiasi processo di approvazione, il gioco è stato ritirato dalla vendita sulle principali piattaforme di e-commerce, ossia il mercato grigio dei prodotti importati, come Pinduoduo e Taobao. Questo circuito informale ha permesso l’acquisto di console e giochi agli appassionati cinesi, importati principalmente da Hong Kong e Giappone, prima della liberalizzazione del 2014, ed è ancora oggi particolarmente utilizzato.
Rimuovere il titolo dal commercio, sebbene non ufficialmente, per timore che possa diventare veicolo di diffusione di un sentimento di protesta, non fa che palesare ulteriormente la valenza dello strumento videoludico nella veicolazione di un messaggio e di una specifica rappresentazione, particolari che la Cina ha colto da tempo e su cui non ha intenzione di farsi trovare impreparata. Il monopolio della rappresentazione è sempre stata una delle priorità di Pechino, ancora di più in un momento dove il principio di un’unica Cina è messo in forte discussione sia ad Hong Kong che a Taiwan. Monitorare la proliferazione di community online, e cercare di contenere la diffusione di sentimenti di solidarietà verso istanze sgradite sarà una grande sfida per il PCC, soprattutto considerando l’inevitabile, e spesso incontrollabile, penetrazione di prodotti videoludici sul proprio mercato, a prescindere da divieti e censure.
Di Alessandro Uras
[Pubblicato su il manifesto]