Lo scorso 4 novembre gli scaffali delle librerie italiane si sono arricchite di un nuovo prezioso volume sulla seconda economia mondiale: Viaggio in Cina 1907 – 1908. Diario di Giovanni Vacca (L’Asino d’oro edizioni) – curato da Tiziana Lioi* – è il diario inedito dello scienziato italiano, con tanto di immagini fotografiche, disegni, mappe, testimonianze letterarie e linguistiche, dei due anni trascorsi agli inizi del Novecento in Cina, all’epoca ancora sotto il dominio imperiale della dinastia Qing. La recensione di China Files. Il 14 marzo 1907, il matematico Giovanni Vacca, lasciò il porto di Genova a bordo del piroscafo Printz Eitel Friedrich. Destinazione: Cina, paese all’epoca ancora più che oggi tanto distante geograficamente e culturalmente, cui lo studioso si era avvicinato da un punto di vista linguistico mentre conduceva ricerche sulla numerazione binaria di Leibniz. Voleva approfondire alcune teorie matematiche avendo intuito che i cinesi, «molto prima degli europei, ebbero oltre all’aritmetica decimale che utilizzavano nel commercio e nella contabilità, anche un’aritmetica binaria, che utilizzarono soltanto a scopo divinatorio, senza escogitare altri utili ambiti di applicazione». Ma finì per trovare un mondo vastissimo, un popolo poco conosciuto, raccontato impropriamente nelle opere di esploratori e missionari europei.
È quindi con l’occhio del viaggiatore più che del matematico che Vacca si accinse a intraprendere un’avventura unica per l’Italia dell’epoca. Sfidò «il cieco campanilismo che portava i vari enti statali e accademici a non accettare di unire le forze e le risorse per un comune scopo di ricerca scientifica a beneficio di tutto il Paese», riuscendo al fine a ottenere le 10.000 lire necessarie a sostentare la spedizione orientale senza dover compromettere la propria autonomia intellettuale. Percorse rotte interne poco battute, da Hankou (oggi parte dell’odierna Wuhan) risalendo lungo il fiume Azzurro verso Chongqing e Chengdu, per poi deviare in direzione nord per l’impervia via verso Xi’an.
Nel corso del viaggio Vacca osserva, studia e annota usi e costumi locali, compresi quegli aspetti commerciali e industriali forse più lontani dagli interessi personali, ma più strettamente collegati all’opera della Società italiana per l’esplorazione dell’Asia. Quel che ne viene fuori è un diario fatto di foglietti, quaderni, piantine di abitazioni, bigliettini da visita e note di spesa. Una narrazione frammentaria e coincisa spesso alternata a un racconto più organico contenuto nel carteggio tra il matematico e i suoi amici, colleghi e parenti.
A Vacca va il merito di aver affrontato la Cina con grande rigore e modernità. Ritenendo che occorresse «partire dalla lingua e dalla cultura, in un secondo momento poi utilizzare le conoscenze culturali come base per i rapporti economici», nell’anno trascorso nell’ex Celeste Impero lo studioso stringe relazioni amichevoli con la gente del posto, di cui ammira l’educazione e la pulizia smentendo il ritratto poco lusinghiero dei cinesi tracciato dai pionieri occidentali, quali Arthur H. Smith in Chinese Characteristics. In realtà – spiega Vacca – i cinesi «sono veramente attivi, pronti, svegli, ed hanno anche un certo loro modo di essere corretti ed educati, che li rende simpatici, più ancora di quanto non credessi […] anziché un popolo strettamente utilitario, come spesso sono descritti, sono invece desiderosi di pensare di studiare per il solo desiderio di sapere». Il matematico apprezza soprattutto l’alto grado di alfabetizzazione («i miei portatori di sedia sanno tutti leggere»), grazie alla diffusione di scuole nei templi buddhisti e taoisti. «Quanto alla sporcizia di cui tanto parlano i viaggiatori, ho potuto constatare che essa non è maggiore di quella che si trova nei nostri villaggi italiani – e credo che lo stesso su per giù di possa dire dei villaggi francesi e tedeschi». Addirittura alcuni aspetti del gigante asiatico «andrebbero imitati», come «l’attenzione per la tradizione e la storia, l’educazione laica, l’attenzione alla giustizia e alla legalità, e il sistema statale basato su meritocrazia e senso del dovere».
La Cina di Vacca è, dunque, un paese in grande fermento, determinato ad archiviare l’esperienza imperiale (defunta nel 1912 con la proclamazione della Repubblica) e pronto ad attingere suggestioni da Occidente lungo quel filo culturale che unisce realtà tanto diverse ai due capi dell’Eurasia. Un primo esempio di una riuscita sinergia sino-europea è la ferrovia Pechino-Hankou, terminata nel 1908 con il supporto del governo belga, cui si deve l’ingresso di prodotti e tecnologia dall’estero favorendo, anziché penalizzando, lo sviluppo della produzione locale. Come si legge nella seconda sezione intitolata Economia, sono i «cattivi prodotti europei» o quelli «giapponesi che imitano gli europei» a sostituire i «buoni prodotti del mercato indigeno cinese, facendo una concorrenza a buon mercato a prodotti di più solida e tradizionale fattura». Altri tempi!
Ma è triste constatare come già allora l’Italia arrancasse nel trovare un posto nei rapporti virtuosi in nuce tra il Dragone e Vecchio Continente. Con grande coraggio, Vacca attribuisce lo scarso interesse del Belpaese per la Cina alla pessima opera di mediazioni culturale intrapresa da missionari e diplomatici italiani. I primi soprattutto – inizialmente rappresentati dai gesuiti e in seguito dall’ordine francescano – sono accusati di aver condotto uno cambio scientifico deficitario rispetto a quello dei protestanti o persino dei missionari indiani buddhisti. «Vivono in Cina isolati e temuti dalla popolazione, girando da una comunità cristiana all’altra, che somigliano un po’ ai ghetti che gli ebrei avevano nel secolo scorso in Italia, ma dei ghetti privilegiati e protetti dai governi stranieri. Non amano il popolo, perché, cedendo alla più ristretta intolleranza religiosa, non credono che si possa essere davvero onesti senza essere cristiani, ed accusano quindi, a torto, la quasi totalità del popolo cinese di corruzione, di perversità, di falsità nel carattere e… sperano soltanto forse dalla forza delle armi la futura conversione della Cina al cristianesimo».
Un giudizio duro che smentisce – fatta eccezione per Matteo Ricci e pochi altri – il tanto celebrato contributo degli evangelizzatori alla formazione degli studi sinologici nello Stivale. Lo stesso va detto dei diplomatici italiani che «trascorrono in Cina troppi pochi anni, spesso pochi mesi, senza aver tempo, né modo, non solo di studiare la lingua, ma nemmeno di impadronirsi delle più elementari cognizioni intorno agli uomini ed alle cose». Ed è proprio in contrapposizione al vuoto seminato dalle generazioni antecedenti che gli studi di Vacca spiccano per profondità d’analisi e doti profetiche. «I cinesi sono 400 milioni – saranno 800 quando tu sarai grande», disse un giorno al figlio Roberto.
Mentre le ricerche matematiche rimasero una costante durante tutta la sua vita, rientrato dal viaggio, lo studioso si dedicò all’insegnamento del cinese: ottenne la libera docenza di lingua e letteratura cinese a Firenze, per poi trasferirsi all’Università di Roma dal 1911 al 1947. In questi anni Giovanni Vacca svolse un ruolo di primo piano nelle vicende che portarono alla fondazione dell’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente, IsMEO, divenuto poi IsIAO nel 1995, a seguito della fusione con l’Istituto Italo-Africano. Un contributo scientifico ch’egli ha sempre arricchito grazie a una spiccata sensibilità umana. «Quello che io ho portato dalla Cina sono duemila volumi circa raccolti con un anno di assidua ricerca, quasi nessuno di essi esisteva in Italia», scrive nei suoi appunti, «ma ho portato un’altra cosa: la stima e l’affetto di qualche uomo di quei paesi, ed il commercio epistolare mi fa parere men lontano e men pungente il doloroso pensiero di trovarmi lontano da alcuni nuovi amici con i quali ci siamo scambiati un pezzo delle nostre anime. Ed è questo che io mi auguro che altri italiani riescano a fare più e meglio di me.»
* Tiziana Lioi si è laureata in Lingue e letterature straniere presso la Sapienza di Roma, dove ha anche conseguito il dottorato di ricerca. Docente di cinese, ha collaborato con diverse università in Italia e all’estero. Si è dedicata alla studio dei rapporti fra la letteratura italiana e quella cinese, pubblicando traduzioni e studi sul comparatista cinese Qian Zhongshu (1910-1998). Nel 2016 ha pubblicato un manuale di scrittura cinese.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.