Siamo a Turpan, che tanto per cominciare è il terzo luogo più basso del mondo. Qui vicino c’è una depressione che sta 150 metri sotto il livello del mare (la città vera e propria sta invece a +30 circa) e non fosse che lo Xinjiang è anche geograficamente il luogo al mondo più lontano da qualsivoglia oceano, avremmo probabilmente una situazione simil-veneziana (o simil-olandese), con allagamenti e tutto il resto.
Invece siamo in una città di 250mila abitanti sorta da un’antica oasi sul percorso settentrionale della via della seta e quindi il clima è così arido che più arido non si può. È anche abbastanza estremo: gli inverni sono piuttosto miti per gli standard del bacino del Tarim – massimo -15 gradi – ma le estate sono un incubo: sulle “Montagne Fiammeggianti” (nomen omen) poco distante dal centro abitato, la temperatura al suolo può raggiungere anche i 90 gradi.
È quindi evidente che l’acqua abbia da queste parti un ruolo fondamentale: non è solo una necessità, ma anche una “cultura”. Lo testimoniano quelle meraviglie di ingegneria antica che sono i karez, dei canali scavati sotto terra e segnalati lungo tutto il loro percorso dai pozzi che servivano a controllarli dall’alto, a creare intersezioni e svolgerne la manutenzione. Portano l’acqua dalla catena del Tianshan, a nord – stiamo parlando di centinaia di chilometri – e sono il tratto distintivo di Turpan, dove l’acqua convergeva naturalmente anche da lontano per via della depressione.
Esiste un museo dei karez (il “Museo idrico”) e in tutta l’area si incontrano diversi di questi canali (si dice che ce ne siano circa 1.100). Noi ve ne segnaliamo uno poco fuori Turpan, dove comincia il deserto, e più precisamente nel Giardino Botanico del Deserto (Tulufan shamo zhiwu fengqing yuan), l’analogo di un nostro orto botanico ma consacrato all’arida natura del luogo. È una visita interessante perché rivela la biodiversità del bacino del Tarim. Si trova dieci chilometri a sud-est della città, ottanta metri sotto il livello del mare.
Sommate clima caldo ad acqua trasportata a forza dal genio umano e avrete la capitale cinese della frutta, Turpan appunto. Se Hami, a est, ha dato il nome a un melone dolcissimo, se Kashgar, all’estremo oriente del Celeste Impero, è la patria della melagrana e se Hotan isolata a sud dal deserto del Taklamakan, è sinonimo di pesche, Turpan è il trionfo dell’uva: ai margini della città ai apre la “valle dell’uva”, appunto, una landa piatta costellata da filari. La specialità del luogo è una varietà dolcissima senza semi, cioè comoda: il packaging perfetto.
Un’altra opportunità da non farsi sfuggire è quella di mangiare i datteri freschi, magari cogliendoli da un albero, dato che dalle nostre parti si mangiano solo quelli essiccati e a Natale.
Per via del clima arido, è diffusissima la frutta secca e quella passita. L’uva, naturalmente (di diversi tipi), ma anche le more, il melone, e tutto quanto si possa disidratare da queste parti. Le noci sono enormi, mentre ci siamo imbattuti in varietà di mandorle mai pervenute oltre il Caucaso. La frutta è lasciata essiccare nei cosiddetti chunche, che costellano il paesaggio rurale. Sono edifici di fango le cui pareti hanno numerosi buchi, attraverso cui passa l’aria calda che secca la frutta.
Uva fa rima con vino e in zona si produce un rosso piuttosto apprezzato, il Loulan (d’accordo, scordatevi Chianti, Cabernet e così via, accontentatevi). Lo si trova nei negozi di alcolici gestiti dagli han (l’etnia maggioritaria nel celeste impero, i cinesi come ce li immaginiamo noi), mentre la popolazione locale uigura (un’etnia turca e turcofona che si è intrecciata nei millenni con mongoli, kazaki, tagiki e con le tribù di mezza Asia centrale) è musulmana, quindi tende a non bere alcol. Se andate quindi in un tipico ristorante uiguro, preparatevi a vedere la cameriera che sgrana gli occhi e dice “no” alla vostra richiesta di alcol (anche se vi siete portati la bottiglia da soli). Con gli han, come di consueto, nessunissimo problema.
Un altro luogo da non perdere è il villaggio di Tuyoq, ai piedi delle Montagne Fiammeggianti, 70 chilometri a est di Turpan, già deserto del Taklamakan (un taxi che vi scarrozza in giro per tutto il giorno dovrebbe costarvi sui 200 RMB). Insediamento uiguro affiancato da famose grotte buddhiste – quando ci siamo andati noi erano inaccessibili – è un luogo da visitare al più presto, perché sta già imboccando la pericolosa china che accomuna tutti gli “scenic spot” cinesi: la Disneyland svuotata di contenuto. Qui, oltre ai soliti cartelli in “chinglish” (tipo “ami la patria, non sputi per terra”) sono già comparsi strani cammelli finti (ci sono sembrati in cartongesso) a citare la via della seta. Peccato che al momento della nostra visita un paio giacessero malmessi in un fosso e quelli rimasti in piedi erano pieni di buchi, come se qualcuno si fosse divertito a prenderli a sassate (non è escluso che sia proprio così).
Perché andarci dunque? Ma perché qui si è scaraventati all’improvviso in un pezzo di medioevo islamico, un villaggio intatto nella sua forma originaria, che ti fa comprendere anche la straordinaria capacità di adattamento dell’uomo ai climi più estremi. Adattamento che è anche produzione di bellezza, come testimonia la locale moschea e l’architettura della case di fango.
Ci sono poi un paio di siti archeologici interessanti: le antiche rovine di Jiaohe, 10 chilometri a ovest di Turpan, e di Gaochang, 30 chilometri a sud-est dalla città. Premesso che sono entrambi luoghi turistici e che le due città condivisero il destino di essere rase al suolo dai mongoli, c’è una differenza non da poco. La prima fu distrutta all’inizio del XIII secolo da Gengis Khan in persona, un tipo a cui muri e palazzi davano piuttosto fastidio. La seconda, invece, fu governata da un idiqut piuttosto sveglio, tale Barchuq, che nel 1209 offrì a Gengis la sovranità sul proprio regno, recandosi personalmente dal khan con un consistente omaggio nel 1211.
Da quel momento, i suoi uiguri divennero i burocrati dell’impero mongolo (erano gli unici che sapessero leggere e scrivere). La città fu comunque assediata e conquistata da un successivo khanato, un centinaio di anni dopo. State attenti che all’ingresso troverete una ciurma di uomini più o meno baffuti che vi faranno pagare una quarantina di RMB per entrare e poi un’altra quarantina per trasportarvi su un carretto trainato da un mulo per poche centinaia di metri, fino alle rovine del tempio buddhista, da dove pretenderanno di riportarvi indietro dopo un quarto d’ora circa. Il consiglio è di farvi almeno il percorso interno a piedi, visto che non si può evitare di pagare il biglietto d’ingresso.
Queste note ci fanno comprendere l’altro aspetto a nostro avviso meraviglioso di Turpan e di tutto lo Xinjiang: l‘estremo melting pot originato dal fatto che qui, nel corso dei millenni, sono passati, hanno commerciato, si sono massacrati, invasi, accoppiati un po’ tutti.
Sta di fatto che l’espressività dei volti, la bellezza unica di occhi che riescono a essere sia a mandorla sia verdi, gli zigomi alti su tutte le sfumature di incarnato e, insomma, la biodiversità umana nel suo più ampio ventaglio, li trovate qui e non altrove. Non è un caso che nell’antichità le concubine più apprezzate dagli imperatori celesti arrivassero da queste parti (insieme alla frutta, un solo carico probabilmente).
Ripercorre la storia degli imperi e delle occupazioni è troppo lungo per questa sede, ma vi lasciamo con una buona lettura: Eurasian Crossroads, di James Millward.
Oggi lo Xinjiang è Cina, ma è anche una di quelle zone bollenti – non solo per il clima – dove negli ultimi anni attentati e repressione si sono susseguiti con una certa frequenza, su tutti la rivolta del 5 luglio 2009. Nel 2001, all’indomani dell’attacco alle torri gemelle di New York, la Cina riuscì a far inserire il Movimento Islamico del Turkestan Orientale nella lista dei gruppi terroristici internazionali, con beneplacito degli Usa. Anche a detta di molti uiguri moderati il fondamentalismo sta facendo proseliti da queste parti, la qual cosa spiega la cospicua presenza di polizia, militari e paramilitari un po’ ovunque. Senza addentrarci nella questione uigura, diciamo che dal punto di vista del turista straniero non cambia molto: solo qualche controllo in più e, a volte, il posto di blocco che vi impedisce di recarvi in questo o in quel villaggio, dove magari si sta svolgendo qualche ispezione in grande stile.
[Scritto per Oggi Viaggi. La foto di copertina è di Gabriele Battaglia]