Molti conoscono il taijiquan semplicemente come “la ginnastica praticata dai cinesi nei parchi pubblici”, ma questo non rende del tutto onore ad una pratica molto antica ed ormai molto diffusa sia in oriente sia Occidente. Il taijiquan è uno stile delle arti marziali nato come tecnica di combattimento e di autodifesa.
Ciò che lo differenzia da altre arti marziali più “dure”, come il kung fu e il karate, è l’attenzione posta sull’aspetto interiore della pratica anziché sulla forza muscolare: il taijiquan si basa su movimenti del corpo rotondi, lenti e armoniosi, richiede un’andatura regolare ed enfatizza la continuità del movimento. La disciplina aiuta a coltivare l’equilibrio e la flessibilità fisica e permette allo stesso tempo con la concentrazione insita nell’esercizio, di rilassare mente e corpo mantenendone però la vivacità mentale. La muscolatura ed i legamenti si rinforzano senza subire strappi o traumi, si migliora la concentrazione e si riduce lo stress.
Ma dov’è nata questa arte marziale morbida? Per scoprirlo di persona, Bruna Piccinelli dell’associazione sportiva dilettantistica Cinque Elementi di Schio è andata quest’estate nel cuore della Cina, in un piccolo villaggio di campagna chiamato Chenjiagou, nella provincia dell’Henan.
Chenjiagou significa letteralmente “il fossato della famiglia Chen”. Fu infatti nei pressi di un largo fossato di campagna, ancora oggi visibile, che i capostipiti della famiglia Chen decisero di insediarsi nel XIV secolo e lì crebbero i loro discendenti. Per generazioni il villaggio dei Chen è stato conosciuto per la qualità delle arti marziali e proprio da lì sono partiti i due più antichi stili di taijiquan praticati tutt’ora: lo stile Chen e lo stile Yang. Oggi a Chenjiagou vivono circa 3000 persone, di cui si dice che 2500 pratichino la disciplina.
Sbarcati in Cina, per arrivare a Chenjiagou è necessario prima di tutto raggiungere Zhengzhou, capitale della provincia dello Henan. Si tratta di una metropoli di oltre 4 milioni di abitanti, importante nodo ferroviario e realtà industriale, che con i suoi alti grattacieli, il traffico caotico e gli onnipresenti cantieri edili non lascia assolutamente presagire la calma e la serenità della pratica del taijiquan. In questa città è necessario fare semplicemente un rapido scalo: dall’aeroporto ci si trasferisce alla stazione degli autobus e qui si sale sul primo mezzo in partenza per Wenxian, capoluogo della contea di Wen dove si trova il villaggio.
Ci vogliono circa un paio d’ore su un autobus sgangherato per spostarsi da Zhengzhou a Wenxian, lasciandosi alle spalle gli edifici ultramoderni della metropoli per inoltrarsi nelle polverose strade di campagna e attraversare il ponte sul Fiume Giallo, considerato la culla della civiltà cinese e secondo fiume più lungo dell’Asia.
Poco distante dal fiume, dopo un ultimo breve passaggio in taxi, un cartello annuncia finalmente Chenjiagou, “luogo di nascita del taijiquan”. La prima impressione, che in seguito sarà confermata, è quella di un paese piuttosto povero, dove la maggior parte degli abitanti è ancora dedita all’agricoltura o alla pastorizia e dove le arti marziali rappresentano per i giovani non solo un’attività fisica da praticare e una tradizione da preservare, ma anche uno strumento di riscatto sociale: qui vengono formati infatti i migliori maestri, che in seguito potranno trovare impiego in una delle scuole del villaggio o andare ad insegnare la propria arte in giro per la Cina o per il mondo.
Appena arrivata Piccinelli è stata accolta nella scuola del maestro Chen Bing, uno dei più noti ed apprezzati della nuova generazione della famiglia Chen. La sua scuola ha camere per gli ospiti, spartane ma confortevoli considerando gli standard della regione, oltre che una palestra in cui si allenano ogni giorno decine di studenti di tutte le età provenienti da ogni parte della Cina. Moltissimi i bambini e gli adolescenti, che approfittano delle vacanze estive per allenarsi duramente nel cortile della scuola o all’ombra dei filari di granoturco, tornando la sera con le magliette imbrattate di fango. Pochi invece gli ospiti stranieri, non più di sei o sette durante tutta la permanenza dell’insegnante di Schio, provenienti da paesi diversi: Stati Uniti, Cile, Slovacchia, Bulgaria, Giappone.
Per tutti ogni giorno gli allenamenti iniziano fin dal primo mattino e sono piuttosto intensi: almeno sei ore di pratica al giorno di forme e tecniche in stile Chen, da soli o in gruppo e sempre sotto la guida di maestri preparati. A renderli più duri ci pensa il caldo intenso: oltre 35 gradi all’aperto, forse qualcosa di più dentro la palestra.
A rimanere impresso, tuttavia, non sono la fatica o il sudore bensì il grande spirito di collaborazione e di amicizia che si instaura immediatamente con gli altri insegnanti e studenti. Nonostante si tratti per la stragrande maggioranza di cinesi e pochissimi riescano a spiccicare qualche parola di inglese, tutti sono disposti a condividere le proprie conoscenze e a insegnare il poco o il tanto che sanno, nello spirito di un comune amore per il taijiquan. Non esistono competizione o esibizionismo che a volte caratterizzano le scuole di arti marziali in occidente, qui tutti si impegnano nella consapevolezza di essere in luogo importante per l’arte che praticano, nella culla della tradizione. Le giornate trascorrono scandite dal ritmo degli allenamenti e dei pasti frugali che si consumano tutti insieme nella piccola mensa comune: riso, verdura, pasta in brodo ed ogni tanto un uovo sodo o qualche pezzo di carne.
Il tempo per svagarsi la sera è poco. Soprattutto sono poche le attrazioni turistiche offerte dal villaggio: nonostante il flusso di studentiabbia incoraggiato la costruzione di un parco dedicato alle arti marziali e l’apertura di qualche esercizio commerciale, dopo il calare del sole non c’è molto da fare se non passeggiare per l’unica strada asfaltata del paese scambiando qualche parola con gli altri studenti e facendo ritorno prima che faccia buio, visto che manca del tutto l’illuminazione stradale.
Le altre strade del villaggio sono ancora di terra battuta, pronta a infilarsi ovunque, a sollevare nubi di polvere durante le burrasche estive e a intrappolare automobili e camion in un terribile pantano dopo ogni acquazzone. Durante il giorno, mentre si suda in palestra, si vedono spesso le stesse strade attraversate da modesti greggi di pecore. Probabilmente anche i nostri paesi di campagna avevano questo aspetto, qualche decennio fa.
Unico diversivo durante la permanenza è stata la visita alla scuola di un’importante delegazione dell’Università dello Sport di Shanghai con ospiti e giornalisti al seguito: in quell’occasione tutta la scuola e la palestra sono state tirate a lucido e gli studenti più preparati di Chen Bing hanno potuto dare sfoggio della loro bravura nelle forme a mani nude oppure con armi: spada, sciabola, lancia, alabarda o ventaglio, come nella tradizione delle arti marziali. A conclusione dell’evento, lo stesso Chen Bing ha eseguito una forma di stile tradizionale assieme agli ospiti stranieri allievi della scuola, tra cui Piccinelli, sottolineando l’importanza della diffusione del taijiquan ed i legami della sua scuola con le altre sparse nel mondo.
Per Piccinelli è difficile pensare di non tornarci quanto prima, magari assieme a qualche allievo della sua scuola di Schio per permettere l’approfondimento della pratica e l’apprendimento di nuove tecniche. L’esperienza alle origini del taijiquan si è rivelata positiva sia da un punto di vista tecnico sia da quello molto più importante dei rapporti umani e del modo di intendere le arti marziali come filosofia di vita e strumento di conoscenza e condivisione reciproca.
[Scritto per: L’informatore di Schio]*Vive e lavora a Schio, ai piedi delle Piccole Dolomiti. Laureato in Sociologia all’Università di Trento, si interessa soprattutto di scienze sociali, storia e folklore. Dal 2006 si dedica alla pratica del Taijiquan e allo studio della lingua e della cultura tradizionale cinese. Scrive sul blog KarmaChimico. Su Twitter è @karmachimico