Shibada, il rito cinese

In by Simone

La seconda economia mondiale, la nazione più popolosa al mondo, cambia governo. Sarebbe interessante descrivere come si organizza una massa di quasi un miliardo e mezzo di persone che deve recarsi alle urne, magari affrontando migliaia di chilometri per tornare al proprio villaggio natale.
Sarebbe esaltante analizzare gli slogan elettorali, i manifesti, i comizi e la mimica dei candidati intervistati in diretta televisiva.  Ma nella Repubblica popolare le cose funzionano diversamente. Non mancano colpi di scena e scandali, ma la narrazione del potere qui assomiglia più a un antico codice da decifrare con strumenti incerti. Non è il racconto da tabloid, smaliziato e accessibile a tutti, a cui ci hanno abituato le nostre democrazie.

Il XVIII Congresso del Partito comunista cinese si aprirà il prossimo 8 novembre, numero decisamente fortunato per la cabala cinese: due 1 che ricordano l’unità e la leadership e un 8, numero fortunato per antonomasia, che ricorda il potere, il sacrificio e la ricchezza. Una data scelta con cura, posticipata per quasi un mese per permettere alla dirigenza comunista in uscita di chiudere definitivamente tutti i giochi prima di annunciare l’appuntamento politico più importante degli ultimi dieci anni.

Chi arriverà al vertice della piramide politica, dovrà gestire il paese che, mantenendo un forte controllo statale sulle imprese, è diventato la seconda economia mondiale. In Cina, infatti, chi siede in cima alla piramide politica decide per tutti, nel bene e nel male. Il Partito ha una base di 80 milioni di membri e una leadership di poche decine di persone che tendono a confondersi con le massime cariche dello Stato. Cambierà il 70 per cento dei membri degli organi più importanti – il Comitato permanente dell’Ufficio politico (o Politburo), il Comitato esecutivo del Consiglio di Stato e la Commissione militare centrale – e almeno il 60 per cento dei 371 membri del Comitato centrale.

Una nuova generazione di leader, la quinta, prenderà il potere. Quella attualmente in carica ha ricevuto un’educazione di stampo sovietico e – secondo diversi analisti – proprio perché cresciuta in uno dei periodi intellettualmente più bui che la storia cinese ricordi, manca di una visione generale e di progettualità.

Se la generazione che li ha preceduti aveva fatto le scuole prima della fondazione della Repubblica ed era cresciuta con gli slogan di un Partito comunista che ancora inneggiava alla dittatura del proletariato, all’uguaglianza e alla libertà, quella che li seguirà è la generazione nata dopo la seconda guerra mondiale, tra il ’45 e il ’55. Ha studiato nelle migliori università della Cina e ha goduto quasi da subito del boom economico.

Quella che verrà sarà con ogni probabilità una leadership di persone meno grigie, ci saranno meno ingegneri e tecnocrati e più personalità del mondo degli affari e della finanza. Xi Jinping e Li Keqiang dovrebbero sedersi al vertice della piramide, rispettivamente ai posti degli attuali presidente Hu Jintao e premier Wen Jiabao.

In Cina, ad un’occhiata superficiale, sembra che tutto scorra pacificamente verso il cambio dei vertici, ma raramente la lotta per il potere è stata più dura e crudele. Con ogni probabilità andrà al governo l’ala riformista, quella inaugurata dagli slogan di Deng Xiaoping “arricchirsi è glorioso” e “lasciate che qualcuno si arricchisca per primo”. È la strada del capitalismo di stato che piace all’Occidente, ma in questa congiuntura storico-economica dovrà stare molto attenta a non esasperare i conflitti sociali già molto gravi nel paese. Altrimenti? La Cina è popolosa e dai tempi dell’Impero ha sempre cancellato le dinastie ingiuste attraverso le rivoluzioni. Ma, come ci ha insegnato Mao, “la rivoluzione non è un pranzo di gala", e il rischio è che la Cina sprofondi nel caos trascinando con sé un Occidente sempre più povero e meno potente.

IL DECENNIO DELLA PROSPERITA’
È la fine di un’era, il decennio che Hu vorrebbe fosse ricordato come l’”età della prosperità”. Nel 2001 la Cina è entrata nel Wto, nel 2008 ha ospitato le Olimpiadi e nel 2010 ha superato il Giappone divenendo la seconda economia mondiale con un Pil di oltre 1.500 miliardi di euro. Nel frattempo si sono esasperati problemi come il divario tra ricchi e poveri, lo spopolamento delle campagne, la carenza di risorse energetiche e di riserve d’acqua, la speculazione edilizia, la corruzione e tutte le enormi complessità ambientali e sociali annesse alla trasformazione economica e sociale più rapida che la storia ricordi.

Inoltre, per la Cina come per il resto del mondo, questo è stato il decennio di internet. Gli utenti – pare raggiungeranno i 600 milioni entro la fine dell’anno – hanno trovato in rete un nuovo modo di confrontarsi, recepire e produrre notizie. Questo si è tradotto in una crescita esponenziale dell’attivismo e della partecipazione popolare. E sembrerebbe che la leadership attuale non abbia ancora capito come gestire questo fenomeno. Oggi non è più possibile nascondere rivolte popolari, scioperi e corruzione dei funzionari pubblici. Le foto e le testimonianze dirette corrono sui social network a una velocità nettamente superiore a quella dei censori incaricati di far sparire i contenuti “politicamente sensibili” dal web.

La presidenza di Hu Jintao sotto il cappello di quella che chiama una “società armoniosa”, nasconde i cosiddetti “incidenti di massa” (180mila solo quelli riportati dalle autorità nel 2010), ovvero le proteste legate agli espropri dei terreni ad uso agricolo, all’inquinamento ambientale e alle richieste di aumenti salariali e di nuove tutele per i lavoratori (non ultime le note vicende della Foxconn, la fabbrica degli iPhone). E non calcola il numero sempre crescente di attivisti, intellettuali e petizionisti – ovvero coloro che convinti di aver subito un torto dalle autorità locali si recano nella capitale a chiedere giustizia al potere centrale come si usava ai tempi dell’Impero – fatti sparire dalle autorità con l’accusa di incitamento alla sovversione dello Stato.

Anche a causa della crisi economica mondiale, quest’anno la Cina ha per la prima volta rallentato la sua crescita vertiginosa registrando il dato più basso degli ultimi ventidue anni: la crescita prevista per il 2012 è solo del 7,5 per cento. E la Cina, se vuole restare in piedi, non può permettersi di rallentare, a rischio ci sono troppi posti di lavoro.

DUE PARTITI NEL PARTITO UNICO
L’attuale leadership ha goduto dei frutti delle politiche di chi li ha preceduti ma la generazione di governanti che si appresta a prendere il potere dovrà avere il coraggio di riformare il sistema per depotenziare tutte le contraddizioni create da una crescita ineguale. Si tratta di promuovere riforme politiche, legali e finanziarie. E gli intellettuali del Partito non sono mai stati così divisi.

Cheng Li, un esperto del Brookings Institute, in un saggio pubblicato sul China Leadership Monitor, una rivista dell’Università di Stanford, ha schematizzato i grandi temi su cui è diviso il Partito. C’è una nuova sinistra neo-maoista che si oppone a una destra liberista che si rifà – e allo stesso tempo vuole superare – il percorso dell’attuale leadership. Su tutto hanno visioni inconciliabili.

I primi leggono questo decennio come quello che apre il «secolo cinese» e segna il declino degli Stati Uniti, mentre i secondi lo confrontano alla decadenza degli ultimi anni dell’impero Qing. Se la nuova sinistra esalta il cosiddetto “modello Cina” come portatore del miracolo economico, della stabilità politica e della crescita di influenza sui paesi in via di sviluppo, la destra cinese è convinta che siano proprio da addebitare a questo modello problemi come il controllo statale sulle grandi aziende, lo stallo politico e l’isolamento internazionale.

Se i neo-maoisti ripensano agli anni della Rivoluzione culturale, dello strapotere delle Guardie Rosse e della rieducazione degli intellettuali nelle campagne come a un’epoca d’oro e credono che la democrazia possa solo essere causa di instabilità, i liberisti cinesi ricordano quell’epoca come il periodo più buio della storia nazionale e pensano che la democrazia sia un valore universale e una tendenza mondiale da perseguire, anche se con tempi, modalità e – ovviamente – “caratteristiche cinesi”.

Infine c’è chi vede nelle riforme di Deng Xiaoping il lato oscuro della globalizzazione ovvero l’inizio delle disparità economiche e della corruzione dei quadri di Partito e chi invece ci ritrova quella Riforma del mercato che ha portato la Cina all’apertura economica e internazionale.

IL FUTURO DEL PARTITO
È normale che ognuno dei due grossi schieramenti abbia la sua ricetta, il Partito comunista cinese non è mai stato così “pluralista” come negli ultimi tempi. La corrente liberista è rappresentata dal pensiero del professore di legge He Bin che si chiede con sarcasmo cosa ci sia da rimpiangere del maoismo. Se le persecuzioni politiche, la catastrofica linea economica disegnata dal Grande balzo in avanti o il caos della Rivoluzione culturale. «Questa è un’epoca assurda. Siamo incoraggiati a cantare inni rivoluzionari, ma non a fare la rivoluzione; ci chiedono di guardare film [di propaganda] come ‘La grande fondazione del Partito’ ma non ci permettono di fondare alcun partito».

La corrente neomaoista aveva trovato il suo rappresentante ideale in Bo Xilai. Carismatico figlio di uno dei fondatori del Pcc, era diventato segretario del Partito di Chongqing, megalopoli della Cina centrale da 32 milioni di abitanti. Una città che nel 2011 vantava un tasso di crescita del 16,4 per cento, ma un disavanzo di oltre 10 miliardi di euro. Era il “modello Chongqing”, quello degli alloggi popolari, delle politiche sociali e della lotta alla mafia; quello degli sms ai cittadini con le citazioni del libretto rosso e delle canzonette nostalgiche del periodo maoista in filodiffusione per le piazze della città.

Il modello Chongqing era quello che piaceva alle masse e quello per cui ben sei dei nove membri del Comitato permanente del Politburo – il gotha del Partito – erano andati a rendere omaggio. Forte di questi successi, Bo Xilai era diventato l’astro nascente della politica cinese, tanto che si credeva fosse destinato a sedersi nel Comitato permanente il prossimo autunno.

La linea politica di Bo Xilai si confrontava direttamente con il cosiddetto “modello Guandong”, ovvero le politiche attuate dal Segretario di Partito di quella regione. Il suo quadro di riferimento, Wang Yang ovvero l’antagonista politico di Bo Xilai, portava invece avanti l’idea che ulteriori riforme di mercato avrebbero portato nuovi benefici.

Il modello Chongqing si era conquistato la stima di molti costruendo alloggi popolari e proponendo una riforma dei permessi di residenza che avrebbe finalmente permesso a milioni di migranti di scambiare i diritti sulla terra con il welfare garantito delle città, ponendo fine alle ingiustizie provocate da una delle leggi più anacronistiche ancora in vigore in Cina, quella che lega i cittadini cinesi al proprio hukou, ovvero alla residenza al momento della nascita. Questa legge, che divide i cinesi in abitanti di città e abitanti di campagna e gli assegna diversi diritti, è la stessa legge che non permette ai figli dei migranti di frequentare le scuole della città costringendoli così a tornare ad abitare con i nonni nel paese natale o a frequentare scuole “clandestine”.

Il modello Guangdong è invece quello che si è conquistato le prime pagine di tutto il mondo per aver gestito ‘in maniera democratica’ le rivolte di Wukan contro la corruzione dei quadri di Partito e la requisizione forzata delle terre. Una protesta avvicinata dal Financial Times addirittura alla Comune di Parigi che ha portato alla caduta del Comitato di Partito del villaggio e all’elezione di nuovi rappresentati. Avvenimento che sembra un unicum nella recente storia del Partito comunista cinese anche se il segretario di Partito Wang Yang non si è mai stancato di ripetere che ha semplicemente agito secondo la legge.

Su questi due modelli e sui loro politici di riferimento, Bo e Wang, è cominciato il dibattito politico sul futuro del Partito. Ambedue importanti membri del Politburo, aspiravano con le loro ideologie diametralmente opposte a uno dei nove seggi (che secondo indiscrezioni sempre più insistenti diminuiranno a sette nella prossima legislatura) del Comitato permanente, il gotha del Partito e della Repubblica popolare.

La visione del futuro cinese proposta dai due leader è stata paragonata alla divisione di una torta. Per Bo, tutti dovevano goderne allo stesso modo, appianando quelle disuguaglianze che riconosceva come il lato oscuro di trent’anni di riforme economiche e di sviluppo. Per Wang, bisognava lavorare sodo affinché la torta potesse essere sempre più grande. Solo così un sempre maggior numero di persone avrebbe potuto riceverne una fetta. Volendo semplificare al massimo, si trattava di un improbabile “Mao contro Deng”, ambientato ai giorni nostri.

UNA LOTTA SENZA ESCLUSIONE DI COLPI
Ma la stessa montagna, può ospitare due tigri? Non secondo il proverbio cinese. Così la corsa politica si è trasformata in una spy story che dura da quasi un anno e che lascia sul campo l’agonizzante Bo Xilai, il personaggio più carismatico che si sia mai affacciato alla politica cinese dopo il grande timoniere Mao Zedong.

Tutto comincia i primi di febbraio, quando Wang Lijun, il capo della polizia di Chongqing nonché vicesindaco e braccio destro del neo-maoista Bo Xilai, viene rimosso dal suo incarico con un comunicato ufficiale: il funzionario avrebbe bisogno di “vacanze terapeutiche”. Dopo qualche giorno , nell’incredulità generale, si rifugia al consolato americano della vicina città di Chengdu. Ne uscirà 33 ore dopo per consegnarsi “di sua spontanea volontà” alla polizia del presidente Hu Jintao. Nessuno sa cosa sia successo durante quelle ore, ma a metà marzo Bo Xilai viene sostituito nelle sue funzioni di segretario di Partito di Chongqing e ad aprile viene epurato dal Politburo e dalla Commissione centrale. Da allora Bo Xilai si eclissa: nessuno lo ha più visto in pubblico.

Nel frattempo, in un sabato sera da sballo, una Ferrari esce di strada a Pechino. A bordo un ventenne e due donne seminude. L’incidente è fatale, ma viene nascosto dai mezzi di informazione. Solo all’inizio di settembre si saprà che il ragazzo morto è il figlio di Ling Jihua, il fido segretario del presidente Hu Jintao. Considerando la rabbia con cui la gente comune giudica chi gode di privilegi solo per essere ‘figlio di’, è escluso che l’alleato chiave del presidente conquisti un posto di rilievo nella prossima legislatura. Fuori un altro.

Il 20 marzo a Pechino girano voci di un tentato golpe. Si dice che ci sia dietro Zhou Yongkang, numero nove della nomenklatura, capo dei servizi di sicurezza e convinto sostenitore della “sinistra” di Bo Xilai. Cinque giorni dopo il governo britannico chiede ufficialmente alla Cina di riaprire l’inchiesta sulla morte di un suo cittadino. Si tratta di Neil Heywood, un uomo d’affari, che viveva da vent’anni in Cina e frequentava la famiglia Bo, morto per “eccesso d’alcol” quattro mesi prima, in una camera d’albergo della città di Chongqing. Peccato che gli amici sostenessero che Neil fosse astemio e che il corpo fosse stato immediatamente cremato.

Nei mesi a venire cominciano a cadere tutti gli uomini di cui si era circondato Bo Xilai. Il 10 aprile la moglie di Bo viene arrestata perché sospettata di aver avvelenato Neil Heywood. Sarà processata in piena estate, confesserà e sarà condannata alla pena di morte “sospesa”, ovvero all’ergastolo. Nel frattempo si fanno sempre più insistenti le voci che Bo Xilai avrebbe intercettato illegalmente molti alti quadri, tra cui il presidente Hu Jintao che, scopertolo, sarebbe andato su tutte le furie.

Ad agosto i vertici della piramide politica si incontrano nella località marina di Beidahe, già cara al Grande Timoniere. Le 62 persone riunite dovrebbero tirare le fila del XVIII congresso e preparare il cambio di leadership “senza scosse” previsto per ottobre del 2012. Dell’incontro non filtra niente: non vengono rese note le date del congresso, se il nuovo Comitato permanente sarà composto da nove o da sette membri, né tanto meno il destino riservato a Bo Xilai. Solo il futuro presidente e il futuro premier – Xi Jinping e Li Keqiang – sembrano rimanere certi. Per i rimanenti sette – o cinque posti (nella versione più probabile di un Comitato permanente ristretto) – ci sono grossomodo nove candidati. È una lotta senza esclusioni di colpi.

Il 5 settembre Wang Lijun, l’ex capo della polizia che si era rifugiato nel consolato americano, viene ufficialmente accusato di abuso di potere, corruzione, intercettazioni illegali e defezione. Negli stessi giorni il paese intero si indigna per l’acquisto da parte del governo giapponese di alcuni scogli disabitati nel Mar cinese meridionale. Il governo incoraggia e tollera le manifestazioni anti-giapponesi fino a quando non si accorge che i cortei sono popolati di immagini di Mao Zedong e che in alcune città hanno dei risvolti di violenza che gli stanno sfuggendo di mano. Sono in molti a pensare e a dichiarare che il significato di quelle manifestazioni trascenda il semplice nazionalismo e manifesti invece il disagio dei cittadini cinesi per il proprio governo.

Sono quelli gli stessi giorni in cui scompare Xi Jinping, il presidente designato. Nel totale silenzio dei media di Stato, Xi non appare in pubblico e manca diversi appuntamenti ufficiali, tra cui quello con il Segretario di Stato americano Hillary Clinton. Cosa gli è accaduto? Quando ricompare, due settimane più tardi, non ritiene di dover dare alcuna spiegazione. Ma è trascorso il tempo necessario perché circolasse qualsiasi congettura: dal malore all’attentato. Qualsiasi cosa sia successa, appena Xi ricompare si apre il processo al capo della polizia legato a Bo Xilai.

L’atteso processo si svolge il 18 settembre in due tempi, il primo in segreto e il secondo in “pubblico”. L’imputato «non solleva obiezioni» alle accuse mossegli. A conclusione esce un lungo comunicato dell’agenzia di Stato Xinhua che ricostruisce tutta la vicenda dell’omicidio Heywood senza spiegare mai in maniera convincente i moventi. La moglie di Bo l’avrebbe assassinato per difendere (da cosa non è dato sapere) il figlio e il capo della polizia avrebbe coperto il reato. In due brani compare la figura di Bo Xilai senza che il suo nome venga mai esplicitato a chiare lettere. Il poliziotto viene condannato a soli 15 anni perché ha fornito informazioni importanti su «reati gravi che coinvolgono altri».

Il tempo stringe e il Partito non può più indugiare in lunghezze burocratiche. Solo dieci giorni dopo, il 28 settembre, l’agenzia di stampa Xinhua annuncia che Bo Xilai è stato ufficialmente espulso dal Partito comunista cinese, interdetto dai pubblici uffici e che presto sarà chiamato chiamato a rispondere dei suoi crimini in un tribunale comune. Nello stesso comunicato leggiamo finalmente anche le date ufficiali del XVIII Congresso. Fatto fuori il “nuovo Mao”, si può procedere alla selezione dei nuovi dirigenti. Sapremo i loro nomi a partire dall’8 novembre. Saranno loro a contribuire al disegno del nuovo ordine mondiale.
[Pubblicato su Left]