Vedi Taiwan e poi fuori

In Asia Orientale by Lorenzo Lamperti

Le autorità di Taipei vietano l’ingresso a Wang Yitai, rapper della Cina continentale che aveva promosso un concerto alludendo alla “riunificazione”. Ma non accolgono nemmeno la scrittrice dissidente Deng Liting. Non è il primo caso

“Il silenzio è una malattia”, dice in una delle sue canzoni più celebri, “Aspirina”. Ma al Legacy di Taipei, dove avrebbe dovuto esibirsi il 14 e 15 settembre, non risuoneranno i suoi versi. Già, perché le autorità taiwanesi hanno vietato l’ingresso a Wang Yitai, considerato uno dei re del rap cinese. Cancellati i due concerti in programma, per i quali erano stati già venduti centinaia di biglietti. La ragione? La diffusione di materiali promozionali contenenti la dicitura “Taipei, Cina” come luogo delle esibizioni. In realtà, il nome ufficiale con cui Taiwan è indipendente de facto è Repubblica di Cina, retaggio della guerra civile e della fuga sull’isola dei nazionalisti di Chiang Kai-shek. Ma il riferimento di Wang è alla Repubblica popolare cinese di Pechino, quella che vuole tornare a controllare Taiwan per completare il “grande ringiovanimento nazionale”.

Ambizione a cui Wang avrebbe fatto implicitamente riferimento sui suoi social nel presentare le due tappe taiwanesi. Sulla piattaforma cinese Xiaohongshu, molto popolare anche tra i giovani taiwanesi tanto da essere diventata una sorta di porto franco di confronto tra nuove generazioni delle due sponde dello Stretto, Wang ha pubblicato una serie di foto promozionali che lo ritraggono seduto su una panchina davanti a un cartello con la scritta “Prossima fermata: Taipei, Cina”. Nella didascalia c’è l’altra parte del messaggio: “Dirigiamoci a sud verso il Tropico del Cancro e alla fine ci sarà un ritorno”. Secondo le autorità di Taipei, si tratta di un’allusione alla “riunificazione”, che sull’isola viene definita “unificazione”.

Risultato: niente concerti per il rapper. “Il contenuto del materiale promozionale viola il regolamento sull’ingresso dei cittadini della Cina continentale nell’area di Taiwan”, ha comunicato il Consiglio per gli Affari continentali, l’entità affiliata al governo di Taipei che regola gli scambi con Pechino. “Il governo accoglie con favore gli artisti della Cina continentale ed è lieto di vedere gli scambi tra le due sponde dello Stretto attraverso la musica”, prosegue la nota, che conclude però sottolineando che “gli scambi tra le due sponde dello Stretto devono essere condotti secondo i principi di uguaglianza e dignità, e non saranno tollerate dichiarazioni o promozioni che minino lo status di Taiwan”. Scelte lessicali in perfetta linea con la retorica del presidente Lai Ching-te, che Pechino considera un “secessionista radicale”.

Non tutti sono d’accordo. L’opposizione del Guomindang descrive la misura come una “scelta politica, per rispondere alla recente controversia sul gruppo Evergreen”. Il riferimento è a una polemica che ha avuto forte eco sui media cinesi e che ha coinvolto l’hotel di Parigi del conglomerato taiwanese. Un blogger continentale ha pubblicato su varie piattaforme dei video in cui si lamentava del fatto che l’albergo si era rifiutato di issare la bandiera cinese tra quelle di tanti altri paesi partecipanti ai Giochi Olimpici. Dopo che diversi utenti cinesi hanno chiesto il boicottaggio, la catena si è dovuta scusare appoggiando il famigerato “consenso del 1992”, un accordo tra Partito comunista e Guomindang che riconosce l’esistenza di una unica Cina, pur “con diverse interpretazioni”.

Il bando per Wang segue anche lo sdegno dell’ala meno dialogante con Pechino, infuriata dopo che durante le Olimpiadi (dove la squadra di Taiwan partecipa col nome di Taipei Cinese) sono circolate immagini di tifosi a cui sono stati sottratti striscioni e vessilli con riferimenti all’isola. Ma pare anche una risposta ai tentativi della Repubblica popolare di ricevere appoggio politico dagli artisti taiwanesi. Qualche mese fa, aveva fatto scalpore un “noi cinesi” pronunciato dal cantante della leggendaria rock band Mayday durante un concerto a Pechino. Diversi artisti si lasciano andare a “concessioni” mirate durante le loro esibizioni continentali, spesso non sotto coercizione ma per calcolo, visto che le dimensioni del mercato cinese sono impossibili da trascurare per chi canta o recita in mandarino.

Eppure, a Taiwan non viene negato l’ingresso solo a cantanti, ma anche a dissidenti in arrivo dal continente. Nei giorni scorsi, le autorità di Taipei hanno respinto alla frontiera Deng Liting, scrittrice dissidente in fuga dalla Cina continentale. Dopo aver chiesto una pubblica commemorazione dei morti di Tiananmen, Deng è stata fermata dalla polizia di Chongqing. Insieme alla famiglia, è scappata in Thailandia per poi prendere un aereo per Taipei. Appena arrivata, Deng ha manifestato l’intenzione di chiedere asilo politico, ma in meno di 24 ore è stata costretta a salire su un altro volo di ritorno a Bangkok. “Mi hanno trattata in modo molto duro, non mi hanno lasciata scelta”, ha raccontato la scrittrice a Radio Free Asia.

Nonostante la forte retorica di Taiwan sui diritti umani, non è certo la prima volta che accade. A febbraio, tre dissidenti cinesi sono stati fatti tornare in Malesia con modalità identiche. A settembre 2023, l’attivista Chen Siming è rimasto alcuni giorni barricati in aeroporto, rifiutandosi di riattraversare lo Stretto. Alla fine, è stato mandato in Canada dove ha ottenuto asilo. Taiwan ospita già altri dissidenti, come Wu’er Kaixi e Wang Dan. Ma anche il noto libraio di Hong Kong Lam Wing-kee, che ha riaperto la sua Causeway Bay Books sull’isola. Eppure, Taipei non ha un vero programma per rifugiati. Partiti e opinione pubblica sono restii a offrire protezione. Lo dimostra l’accoglienza sotto le attese per i dissidenti di Hong Kong negli ultimi anni, quelli dopo l’introduzione della legge sulla sicurezza nazionale che ha fatto seguito alle grandi proteste del 2019. Spesso, la scusa ufficiale è che si temono infiltrazioni. Ma potrebbe anche centrare il fatto che, nonostante il pressing di attivisti e associazioni a difesa dei diritti, si preferiscono in alcuni casi evitare nuovi motivi di scontro con Pechino, con cui i rapporti sono già a dir poco tesi.

Risultato: Taiwan si rivela talvolta meno accessibile di quanto possa sembrare.

Di Lorenzo Lamperti

[Pubblicato su il Manifesto]