Contro ogni previsione, anche la più pessimistica, la popolazione cinese ha già cominciato il suo lento e inesorabile declino. O almeno questo è quanto traspare dall’ultimo censimento nazionale, consultato stando al Financial Times. L’esito dell’indagine – la prima avviata da Pechino nell’ultima decade e la settima in assoluto dalla fondazione della Repubblica popolare – doveva essere pubblicato a inizio aprile ma, secondo fonti del quotidiano finanziario, i numeri ben inferiori alle aspettative spiegherebbero il ritardo. Come annunciarlo senza suscitare polemiche?
Se la notizia fosse confermata, il calo – sotto la soglia degli 1,4 miliardi di abitanti raggiunta nel 2019 – attesterebbe la prima contrazione della popolazione cinese dalla grande carestia dei primi anni ’60. Le ripercussioni economiche si preannunciano dirompenti. Tanto più che la discesa è cominciata con dieci anni di anticipo rispetto alle proiezioni governative, che precedentemente avevano collocato il picco delle nascite “intorno al 2030”.
Le autorità negano tutto. Rispondendo alle indiscrezioni della stampa internazionale, giovedì l’Ufficio nazionale di statistica ha assicurato (senza però fornire dettagli) che lo scorso anno “la popolazione è continuata a crescere”. Tesi sostenuta da alcuni demografi cinesi intervistati dai media statali, secondi i quali il presunto “calo” andrebbe piuttosto attribuito a un “errore statistico”: ovvero allo scollamento tra i dati sovrastimati del periodo 2011-2019 e il risultato del censimento “porta a porta”, molto più preciso e affidabile dei rilevamenti effettuati ogni anno dall’ente pubblico di ricerca. La prima flessione avverrà nel 2022, rassicurano gli esperti. Come se rimandare il problema di un anno cambiasse qualcosa.
L’invecchiamento della popolazione è uno dei tanti “rinoceronti grigi” (rischi prevedibili ma sottovalutati) fronteggiati dalla leadership cinese. Il gigante asiatico sconta oltre sessant’anni di pianificazione famigliare. Nonostante nel 2015 sia stata abolita la politica del figlio e innalzato il limite a due bambini per coppia, nel 2019 le nascite sono state appena 14,6 milioni, il livello più basso dal 1961. Un trend che anche quest’anno trova conferma nelle statistiche preliminari rilasciate da alcune province cinesi: quelle verso la costa, più economicamente vivaci, hanno registrato una diminuzione deille nascite superiore al 30%.
Secondo pronostici ufficiali, entro il 2025, gli over 60 arriveranno a rappresentare circa un quinto della popolazione. Le ricadute rischiano di impattare tanto la produttività quanto il sistema pensionistico e i consumi interni, su cui l’establishment punta di più per sostenere la crescita economica anche in tempi di incertezze globali. Insomma, la Cina rischia di “diventare vecchia prima ancora di diventare ricca”, avverte uno dei principali think tank governativi.
Annunciando il nuovo piano quinquennale, a ottobre il partito ha manifestato l’intenzione di allentare ulteriormente le restrizioni sulle nascite, ventilando una politica della fertilità “inclusiva”. Sul tema, è tornata ultimamente anche la Banca centrale cinese, stando alla quale non solo il governo dovrebbe revocare completamente la pianificazione famigliare, ma anche incoraggiare le coppie a fare più figli. Missione non facile considerato il crescente costo della vita e la conseguente diminuzione dei matrimoni, ai mini dal 1982. E poi equivarrebbe ad ammettere di aver perseguito per decenni una strategia sbagliata.
Da tempo si valutano incentivi economici ad hoc. Una spinta in tale direzione potrebbe finalmente arrivare da considerazioni geopolitiche. Come ammesso dall’istituto di credito cinese, il basso tasso di natalità rappresenta una minaccia per il sorpasso del gigante asiatico sugli Stati Uniti, dove l’arrivo di forza lavoro dall’estero ha permesso di superare la transizione demografica agevolmente. Oltre la Muraglia invece al rincaro della manodopera (non più così low cost), si aggiungono i lasciti di politiche obsolete che non ostacolano solo l’immigrazione internazionale, ma persino la mobilità interna tra aree rurali e città.
[Pubblicato in forma ridotta sul manifesto]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.