Da Wei è il direttore del Centro per la sicurezza e la strategia internazionale (Ciss) della Tsinghua University di Pechino. Esperto di politica estera riconosciuto a livello internazionale, il manifesto lo ha intervistato per capire quale può essere la postura cinese nel terzo mandato di Xi Jinping e la traiettoria dei rapporti con gli Usa. Soprattutto in relazione a Taiwan, il principale nodo emerso dal bilaterale tra Xi e Joe Biden a Bali.
Il terzo mandato di Xi sembra porre molta enfasi sulla “sicurezza”. Che impatto può avere questo sulle relazioni tra la Cina e il mondo?
Il governo cinese ha un “approccio olistico” alla sicurezza nazionale, concetto che include più di dieci tipologie di minacce che la Cina e il mondo intero devono affrontare, compresi il cambiamento climatico e la salute pubblica. Porre attenzione sulle questioni di sicurezza vuol dire che la Cina ha necessità di investire maggiori risorse per mitigare le preoccupazioni in questo ambito sotto diversi aspetti come la sicurezza militare, quella finanziaria, la sicurezza delle aziende e dei cittadini cinesi all’estero. D’altro canto, vuol dire anche che la Cina può collaborare con l’Europa e gli altri Paesi in materia di sicurezza.
La Cina pensa ancora di essere di fronte a un periodo di “opportunità strategiche” oppure intravede soprattutto pericoli? Questo influenzerà il percorso e gli obiettivi della Cina nei prossimi anni?
Il “periodo di opportunità strategiche” come definito dal governo, è effettivamente finito. Questo cambiamento ovviamente mostra una valutazione tendenzialmente negativa da parte della Cina sulla sicurezza globale. Guardando alla strategia di sicurezza nazionale degli Stati uniti o all’opinione pubblica europea, temo che sia evidente che tutti ritengono che vi sia un peggioramento nella sicurezza internazionale. Ciò influenza le scelte politiche e strategiche a livello nazionale. Eppure, come emerso dal XX Congresso, il governo cinese spera comunque di riuscire, nei limiti del possibile, a mantenere le scelte politiche iniziali. Comprese quelle di percorrere una via di sviluppo pacifico, mantenere l’apertura verso l’estero, sostenere la globalizzazione e il ruolo decisivo del mercato.
Taiwan appare il nodo principale nei rapporti con gli Stati uniti. Al Congresso si è molto parlato delle “interferenze esterne”. Questo può portare a un’accelerazione del perseguimento della “riunificazione”?
Dal Taiwan Policy Act passato al Congresso e in corso di discussione alle visite di leader statunitensi, l’ingerenza dell’amministrazione Usa è aumentata pesantemente. Una situazione simile si sta verificando, anche se con grado diverso, in Europa. Il governo cinese rifiuta questo tipo di ingerenza. Da questo rifiuto non si può però trarre la conclusione che la Cina voglia accelerare la ricerca della riunificazione. Il governo e i cittadini cinesi sperano e credono che Taiwan potrà riunificarsi con la madrepatria, tuttavia non è mai stata fissata una timeline, quindi non si può parlare di anticipi o di posticipi.
Al Congresso, Xi ha anche citato il passaggio di Hong Kong dal caos alla stabilità. Ritiene che il modello “un paese, due sistemi” sia l’unica opzione possibile nel regolare i futuri rapporti con Taiwan oppure esistono altre opzioni?
Su “un Paese, due sistemi” è probabile che ci sia una incomprensione: si crede infatti che sia un modello di governance fisso, oppure, che si tratti dell’attuale sistema in vigore a Hong Kong. In realtà, il principio “un Paese, due sistemi” può avere differenti forme in ambienti diversi. Il fulcro rimane però che sotto l’ampio tetto di “un unico Paese”, dei luoghi, che applicano un alto grado di autonomia, possono, in base alla loro situazione, applicare un sistema parzialmente diverso da quello principale della Cina. In che modo questa diversità si manifesti è un aspetto che si può discutere e studiare. In realtà, negli ultimi due o tre anni, la Cina continentale ha proposto proprio di esplorare l’idea di un progetto “a due sistemi” per Taiwan, il che vuol dire una edizione di Taiwan di “un Paese, due sistemi” che potrebbe avere molto in comune con quelle esistenti ad Hong Kong e Macao, ma anche delle differenze. Quindi potremmo dire che “un Paese, due sistemi”, può essere inteso, in un certo senso, anche come “un Paese, molti sistemi”. Questo lascia una enorme flessibilità e margine di esplorazione. La forma dei “due sistemi” si può discutere, ma la premessa di “un solo Paese” è inamovibile.
Che cosa comporta l’inserimento nello statuto del Partito comunista dell’opposizione alla “indipendenza di Taiwan”?
Credo che non si dovrebbe interpretare in modo eccessivo questo cambiamento. Prima del Congresso, molti miei amici occidentali prevedevano che ci sarebbero state nuove affermazioni sulla questione di Taiwan e credevano persino che la Cina avrebbe, durante la plenaria dell’Assemblea Nazionale del Popolo e della Conferenza Politica Consultiva a marzo prossimo, definito una nuova strategia. Francamente, non so da cosa derivassero queste loro valutazioni. Nella relazione del XX Congresso non c’è alcuna nuova affermazione. In questi anni, in Occidente si sono diffuse molte leggende sulla questione di Taiwan: ad esempio, in molti ritengono che la Cina possa, prima di una certa data, fare ricorso alla forza. In quanto studioso cinese, posso dire che non ho mai sentito parlare di una data di scadenza. L’incipit dell’Arte della Guerra di Sun Tzu si apre con una frase emblematica: «Gli affari militari sono un’importante questione di stato; il terreno in cui si giocano vita e morte; il dao del permanere e del perire. Non analizzarli è dunque impossibile». Questo vuol dire che quando i cinesi parlano di guerra il primo principio è quello di essere “cauto e prudente”. Non si dovrebbe parlare di guerra con leggerezza.
Un altro tema che divide Pechino e Washington è quello dello sviluppo tecnologico. La Cina come intende reagire alle restrizioni americane, per esempio in materia di semiconduttori?
Le limitazioni che gli Stati uniti impongono al settore scientifico-tecnologico cinese, ovviamente, spingeranno la Cina a ricercare l’autonomia tecnologica, questo è scontato. Ma nell’economia contemporanea nessun Paese può realizzare un’autonomia tecnologica totale e, al contempo, mantenersi competitivo sul mercato. In un ambiente chiuso, un singolo Paese potrebbe forse sviluppare la maggior parte delle tecnologie, ma il processo di ricerca e sviluppo connesso sarebbe a bassa efficienza, inoltre i prodotti che ne nascerebbero non sarebbero competitivi. Quindi, autonomia tecnologica vuol dire realizzare un’autonomia in tutti i tipi di tecnologie, in tutte le fasi del processo e in tutti i prodotti oppure vuol dire ottenerla in alcune tecnologie fondamentali, in alcuni prodotti chiave e in alcune fasi cruciali del processo in modo da facilitare la creazione di un certo tipo di “deterrenza” verso gli altri Paesi che detengono tecnologie simili? Oppure significa pianificare una collaborazione tecnologica con gli altri Paesi garantite da stabili rapporti diplomatici? Quale di queste vie si addica meglio agli interessi della Cina e quale di questi percorsi sia più percorribile, sono aspetti su cui il dibattito è ancora in corso. Quindi occorre evitare di considerare l’autonomia scientifico-tecnologica come una volontà della Cina di voler sostituire al cento per cento le tecnologie occidentali, perché questa non è la politica del governo cinese e non è qualcosa di attuabile, né di economicamente sensato.
Quali effetti può avere sull’Europa il confronto tra Cina e Usa?
Le relazioni tra la Cina e i Paesi europei stanno affrontando un momento di dura prova. L’accordo sugli investimenti sino-europei è ancora nel limbo, la guerra in Ucraina ha ampliato ulteriormente la distanza e la tendenza a creare schieramenti politici a livello mondiale rischia di porre Cina ed Europa su schieramenti diversi, qualcosa di estremamente sfortunato. L’Europa non desidera diventare una potenza egemone a livello mondiale, la Cina e l’Europa non hanno conflitti geopolitici. Sicuramente, a livello ideologico ed economico, scientifico e tecnologico abbiamo delle divisioni, ma queste differenze sono diverse da quelle tra Cina e Stati uniti. Una delle contraddizioni centrali nel rapporto tra Cina e Usa è che gli Stati uniti non riescono ad accettare la realtà dei fatti che un’altra potenza, o un altro centro di potere, possa superarli. Questa contraddizione è già emersa negli anni ottanta del secolo scorso nei rapporti tra Stati uniti e Giappone e negli anni novanta in quelli tra Usa ed Europa. Tra Cina ed Europa non c’è un problema del genere. Nel breve periodo le relazioni sino-europee vivranno un periodo piuttosto difficile ma, se guardiamo al lungo termine, la Cina ritiene l’Europa un’importante forza a livello mondiale e auspica che possa valutare le sue relazioni con uno sguardo strategico autonomo.
Quale sarà lo spazio futuro per la Belt and Road Initiative?
Dopo una prima fase di grande sviluppo, la Belt and Road mostra ora una tendenza verso una maggiore pragmaticità: l’aspetto economico dell’iniziativa si sta rafforzando, mentre quello strategico sta decrescendo. Credo che questo sia un cambiamento positivo. Ed ovviamente è legato alla pandemia e al rallentamento della crescita economica cinese.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicata su Il Manifesto]
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.