Marco Marazzi, socio dello studio Baker McKenzie e fondatore del think tank Easternational, ha vissuto a lungo in Cina, dove oltre a svolgere la professione legale ha anche ricoperto la carica di vice presidente della Camera di commercio europea in Cina nella sezione di Shanghai. In un’intervista ad Affaritaliani.it, Marazzi analizza lo stato attuale dei rapporti commerciali e diplomatici tra Europa e Repubblica Popolare.
Marco Marazzi, in molti parlano di “nuova guerra fredda” e sembra che ci si trovi di fronte a un bivio nel quale bisogna decidere da che parte stare, sia a livello politico che commerciale. E’ davvero così?
Questa idea che dobbiamo scegliere se fare affari con gli Stati Uniti o fare affari con la Cina è una costruzione politica e mediatica che non riflette la realtà. Né, penso, riflette le vere intenzioni degli Stati Uniti, quantomeno del loro establishment tradizionale. Tant’è che diverse aziende statunitensi continuano a investire in Cina. Negli scorsi giorni, per esempio, American Express ha avuto la licenza per una joint venture per fare card clearing, un mercato enorme. Starbucks sta aprendo ancora centinaia di nuovi locali. Apple non ha dato alcun segnale di voler spostare la produzione di iPhone fuori dalla Cina, anche per il suo profondo legame con Foxconn, che produce in Cina. Insomma, si è creato un ecosistema impossibile da replicare altrove sotto il profilo dei costi ma anche dell’esperienza e delle skills. Vorrei anche dire che questa cosa che bisogna scegliere da che parte stare non riflette nemmeno il pensiero dei nostri partner europei. Sia Francia sia Germania hanno una maggiore presenza di investimenti in Cina rispetto all’Italia. Basti pensare che Berlino ha circa 80 miliardi di stock e noi una decina. In Germania o Francia non c’è un discorso del genere sulla necessità di scegliere. In Italia mi pare che una parte della politica e una parte della stampa alimentino invece questa retorica per motivi sensazionalistici. Ma intanto le aziende italiane sono interessate a vendere o comprare sia dagli Stati Uniti sia dalla Cina perché in qualche modo dipendono da tutti e due i mercati.
Non è che invece l’Italia è costretta a scegliere, o quantomeno ci sono pressioni anche esterne in tal senso, perché è più debole rispetto a Francia e Germania e dunque più semplice da influenzare?
E’ chiaro che in Italia c’è sempre stata una forte influenza degli Stati Uniti, come peraltro accade anche per tanti altri paesi europei. Non dimentichiamoci che facciamo parte della Nato. Ma il grosso errore è quello di descrivere la situazione come se fossimo tornati alla guerra fredda degli anni ’60 con Nato da una parte e Patto di Varsavia dall’altra. Non è nemmeno lontanamente così. Pensare che commercio e investimenti bilaterali con la Cina mettano in discussione addirittura la nostra appartenenza all’UE o alla Nato è un aberrazione. E mentre noi ci preoccupiamo di queste cose tanti altri paesi occidentali continuano a fare affari e investire, prendendo quote di mercato.
A che punto siamo con l’accordo bilaterale sugli investimenti tra Ue e Cina?
L’accordo è in negoziato dal 2013. Quello che l’Ue chiede alla Cina di fare è una cosa che per la Cina non è semplice ma su cui si deve impegnare: aprire il mercato a tutti gli investitori europei, tenendo chiaramente il controllo dei settori strategici come facciamo sempre più anche noi. C’è il grande problema degli appalti pubblici, perché il sistema cinese non è aperto ad aziende straniere come invece il sistema europeo è aperto a quelle cinesi. E c’è anche il problema dei sussidi alle aziende di Stato. Al momento non vale la pena firmare un accordo che ribadisce l’esistente e non risolve questi nodi. Secondo me la Cina l’ha capito, ma ci sono decisioni da prendere e checché se ne pensi non è che il Pcc decide e implementa tutto. Ci sono tutta una serie di interessi costituiti anche di aziende private cinesi e pressioni delle imprese di Stato. Detto questo, la Cina stava dando segnali di apertura prima della pandemia. Dal 1° gennaio è entrata in vigore una nuova legge che semplifica gli investimenti stranieri, la Cina sta aprendo anche il settore finanziario, è stato consentito a società automotive e assicurative di acquisire la maggioranza delle quote nelle loro joint venture. Ma nello stesso momento sembra che l’Europa voglia chiudersi, anche per il timore che le aziende di Stato cinesi riescano a penetrare nel mercato europeo. Credo che ci si debba sedere intorno a un tavolo e raggiungere un accordo su tutto quello che si può fare o che non si può fare. E ripartire da lì.
Questo può avvenire durante il semestre tedesco in Europa?
Questa e’ la speranza della presidenza tedesca. La Germania ha un ruolo preponderante nella relazione tra Europa e Cina, anche perché è molto più esposta. Sono le aziende tedesche che gestiscono i flussi bilaterali e svolgono spesso il ruolo di distributore o di assemblatore di tanti prodotti del resto d’Europa. Probabilmente non si riuscirà a firmare l’accordo entro dicembre, ma il posticipo del vertice di Lipsia previsto originariamente per settembre non è un segnale di indebolimento dei rapporti e non penso sia dovuto alle elezioni Usa. Se si deve fare un accordo poco utile meglio rimandarlo.
Come giudica l’adesione dell’Italia alla Belt and Road?
Premetto che è un po’ presto per fare bilanci. Certo, è chiaro che sotto il profilo degli investimenti bilaterali sarebbe auspicabile negoziare come Ue, banalmente perché il peso negoziale aumenta. Ma il problema sono le aspettative. Se ci aspettavamo che dal MoU sarebbe esploso l’export ora ci rendiamo conto che non è stato così, anche per la trade war e il Covid che hanno rallentato l’economia cinese. Se ci aspettavamo una preferenza dell’Italia come punto di snodo per il passaggio delle merci dalla Cina all’Europa anche su questo non sono stati fatti tantissimi progressi. I nostri porti rimangono interessanti ma di passi concreti ne sono stati fatti pochi. Io credo che la Cina debba decidere su che cosa concentrarsi.
Quali sono le prospettive della Belt and Road per il post Covid?
Pechino dovrà scegliere su quali aree del mondo focalizzarsi e credo che la Belt and Road anche per questo è un progetto che verrà almeno in parte ridimensionato. Anche perché quella della Belt and Road è un’etichetta che sembra suggerire che avvenga tutto all’interno di un piano centralizzato e pianificato. E si dà spazio ai critici o scettici di pensare che ci sia dietro chissà quale disegno di “conquista” globale. Se si guarda poi all’impatto di questo progetto, si vede che è stato rilevante nel Sud Est asiatico e in Africa, ma molto meno in Europa. E nella maggior parte dei casi gli investimenti arrivavano o sarebbero arrivati indipendentemente dalla Belt and Road. Ora le priorità della Cina sono la lotta alla povertà e alla disoccupazione, non lanciarsi in opere non strategiche.
Crede che invece sul 5G si arrivi di fronte a una scelta drastica oppure no?
Sul 5G pesa il timore degli Usa che una tecnologia così importante possa essere dominata dalle aziende cinesi. Ma se questo accade è anche per scelte fatte anni fa dalle aziende americane che hanno deciso di non investire nel settore lasciando un vantaggio competitivo notevole ai concorrenti cinesi. In questo caso gli aspetti commerciali e di concorrenza si confondono con quelli politici e c’è un tentativo di Washington di evitare che Pechino possa avere il predominio di questa tecnologia e che una parte del mondo ne possa poi dipendere. Quello che ci dobbiamo chiedere noi italiani ed europei è: è possibile che settori cruciali per il futuro come 5G, intelligenza artificiale e tanti altri siano dominati da Usa e Cina oppure è il caso di creare qualche campione europeo? Nello specifico delle aziende cinesi credo poi che vada valutato il rischio reale sul coinvolgimento delle aziende di qualsiasi provenienza straniera nelle nostre reti, e che venga fatto in modo indipendente. Serve un approccio basato sul rischio effettivo che non guardi solo al passaporto.
Quello che stiamo vivendo è il secolo asiatico?
E’ inevitabile che con una popolazione che supera i 4 miliardi l’Asia abbia un peso specifico sempre maggiore sull’economia mondiale. E lo avrà sicuramente sempre di più nei prossimi decenni. Ci sono 4 miliardi di persone che vogliono una vita di benessere come la nostra. Alcuni di loro ce l’hanno già, altri ci arriveranno. I paesi asiatici vogliono acquisire le risorse per accrescere il benessere della propria popolazione. Si tratta di un movimento inarrestabile che non mi pare sia nemmeno giusto fermare. Pensare di essere assenti da quell’area oppure di erigere trincee o muri mi pare un’idea inattuabile e suicida.
Accennava prima al dibattito politico e mediatico polarizzato sulla Cina. Come si può uscire da questa logica di schieramento pro e contro?
La prima cosa sarebbe quella di invitare nei talk show persone che hanno vissuto in Cina e hanno esperienza diretta del paese. Persone che hanno avuto possibilità di confrontarsi con quello che le aziende fanno e quello di cui hanno bisogno. Purtroppo invece della Cina di recente parlano tutti, in tanti senza conoscerla. E quando non si hanno argomenti solidi si tende a dividersi in guelfi e ghibellini, così “a simpatia”. Ed è quello che sta succedendo in Italia.
[Pubblicato su Affaritaliani]Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.