Confronto sì, scontro no. L’Asia si prepara ad assistere, da lontano ma non troppo, alle elezioni presidenziali Usa 2020. E tra i temi che possono incidere su una preferenza per Donald Trump o Joe Biden c’è l’approccio di Washington alla Cina. Un tema da cui, tra Asia orientale e Sud-est asiatico (o meglio Indo Pacifico) non si può più scappare. Ne abbiamo parlato tante volte, su China Files: alle potenze medie asiatiche come Giappone e India e ai paesi della galassia Asean fa comodo avere un’America vigile sull’ascesa del Dragone, ma non una Casa Bianca che chiede di arruolarsi in una guerra ideologica.
“Non mi pare che ci sia una posizione certa su cosa convenga al Sud-est asiatico in termini di risultati elettorali americani”, dice Valerio Bordonaro, direttore dell’Associazione Italia-ASEAN. “Trump, al secondo mandato, potrebbe cambiare sensibilmente spartito, rispetto ai primi quattro anni, e non è detto che Biden imporrà, in caso di vittoria, un’inversione di rotta decisiva e tempestiva alla politica estera americana”.
LATITANZA ASIATICA
Dopo la sua vittoria del 2016, fra le prime azioni di Trump da presidente ci fu quella di ritirarsi dal partenariato trans-pacifico, un accordo di investimenti che riuniva 12 paesi tra Americhe, Pacifico e Asia orientale di cui facevano parte anche Giappone, Singapore, Vietnam, Malaysia e Brunei. Nel momento dell’accordo, pilastro del Pivot to Asia di Barack Obama, l’area di libero scambio avrebbe coperto circa il 40 per cento del prodotto interno lordo globale. Già nella campagna elettorale contro Hillary Clinton, però, Trump aveva giudicato il TPP come “pericoloso” per l’industria americana e aveva promesso che una volta eletto avrebbe bloccato la sua ratifica. Ed effettivamente così fece, sotto la guida dell’allora stratega della Casa Bianca Steve Bannon.
Un primo colpo alla stabilità dei rapporti tra Stati Uniti e Asia orientale. Non l’unico. “Nella regione non perdonano a Trump di non aver mai presenziato ai summit ASEAN e di non aver nominato un ambasciatore presso il segretariato a Jakarta” spiega Bordonaro. D’altronde, il tycoon ha dimostrato di essere allergico alle organizzazioni internazionali e associazioni transnazionali. Basti pensare alle sue uscite destabilizzanti sulla Nato, al suo supporto alla Brexit e alle divisioni interne all’Unione europea, al suo ritiro dall’Organizzazione mondiale della sanità nel mezzo della pandemia da Covid-19. Nonché la ritrosia a riconoscere gli accordi già esistenti, da quello nucleare con l’Iran a quello sul controllo degli armamenti con la Russia. Tutto per il principio del “non farsi fregare”.
GLI EFFETTI DELLA TRADE WAR
Bordonaro mette però in luce alcuni effetti positivi della presidenza di Trump per gli attori del Sud-est asiatico. “Tutti i paesi della regione hanno beneficiato di questa prima fase dello scontro commerciale USA-Cina, di cui Trump è stato il maggiore sponsor”. Evidente soprattutto il caso del Vietnam (ne abbiamo parlato qui), che ha attratto un rilevante numero di linee produttive in fase di ricollocazione per evitare i dazi (in particolare nel tessile), nonché per abbattere i costi del lavoro in netta crescita in Cina. Nonostante le tariffe imposte nel 2018 da Washington sull‘import di acciaio, per evitare l’aggiramento delle regole anti dumping da parte dei produttori cinesi, nel 2019 il Vietnam è cresciuto del 7 per cento e ci si attende che anche nel 2020 il pil salga del 2,8 per cento.
Singapore sta invece accogliendo attori finanziari e bancari in uscita da Hong Kong, dopo la legge sulla sicurezza nazionale di Pechino ma anche (o soprattutto) dopo la rimozione dello status speciale all’ex colonia britannica da parte proprio di Trump. Proprio i due paesi, Vietnam e Singapore, che si erano ritagliati il ruolo di piattaforme di mediazione nei due summit del presidente americano uscente e il leader della Corea del nord, Kim Jong-un.
I CRUCCI DI TOKYO E SEUL
Finché ci si illudeva che il confronto Usa-Cina potesse rimanere commerciale, i paesi del Sud-est asiatico hanno dunque tratto alcuni vantaggi. Più delle potenze medie come Giappone e Corea del sud, che hanno invece sofferto soprattutto due aspetti della politica estera trumpiana: l’imprevedibilità e la logica economicista con cui sono stati interpretati legami di natura e dal valore prettamente geopolitico. E’ il caso della Corea del sud, caposaldo della strategia americana in Asia orientale sin dal dopoguerra eppure entrata nel mirino di Trump per le spese difensive. Non solo. Trump non si è preoccupato di appianare le divergenze tra Tokyo e Seul (esplose in uno scontro commerciale e diplomatica), fornendo un indiretto assist a Pechino, divenuta indispensabile non solo commercialmente ma anche diplomaticamente, in particolare a Moon Jae-in sul nodo del dialogo intercoreano.
DA CONFRONTO A SCONTRO
Ma l’iniziale latitanza geopolitica ha creato delle oscillazioni interne, in primis nelle Filippine, dove anche a causa della peculiarità del presidente Rodrigo Duterte c’è stato un netto avvicinamento a Pechino e la messa in discussione della presenza dei militari americani sul territorio di Manila. Il problema maggiore, comunque, arriva quando la contesa con la Cina ha trasceso la sfera commerciale.
Come spiegavamo nell‘analisi sull’avvicinamento di Pechino e Taipei al voto americano, i partner asiatici si trovano molto più a loro agio nelle atmosfere soffuse del dramma psicologico e maledettamente a disagio nello “sparatutto” (figurato, per ora) trumpiano. Ecco perché, i paesi del Sud-est asiatico non si sono fatti “arruolare” da Mike Pompeo sulla vicenda del Mar Cinese Meridionale. Mentre le potenze medie regionali come Giappone e India sembrano sì avvicinarsi ai desiderata di Washington, ma in realtà si muovono per costituire un’alternativa asiatica al Dragone che possa fare a meno di un Big Brother diventato imprevedibile, senza dire di sì all’ipotetica Nato asiatica.
Ecco che allora una seconda presidenza Trump potrebbe diventare improvvisamente sconveniente dal punto di vista economico, per le scelte di campo da operare anche a livello commerciale (in primis tecnologico), e pericolosa da quello geopolitico, con la possibile evoluzione da “confronto” a “scontro” che in Asia non vuole nessuno. Biden, pur non potendo invertire del tutto la rotta, potrebbe provare a rinsaldare i legami internazionali proponendo una visione meno esclusiva e più partecipativa.
Visione che farebbe tirare un sospiro di sollievo a realtà come Asean e Unione europea. “Dal punto di vista italiano ed europeo c’è da augurarsi una vittoria di Biden”, dice infatti Bordonaro, “che riporti ai vari tavoli del multilateralismo un attore importante come gli Usa, ma ridimensionato rispetto al capitale relazionale e politico di cui beneficiava Obama, seppur figlio del delirio unipolare di Clinton e Bush. Se Biden vincesse e decidesse di giocare correttamente la partita multipolare e della diplomazia integrata, troverebbe ad accoglierlo a braccia aperte l’Ue e l’Asean, insieme a tanti altri”.
[Pubblicato su Affaritaliani]Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.