Usa 2020, alla Cina può convenire un Trump bis. A Taiwan serve il “sollievo” Biden

In Cina by Lorenzo Lamperti

Negli Stati Uniti ci saranno pure “troppe elezioni”, come avrebbe detto Xi Jinping a Donald Trump a margine del G20 di Tokyo nel 2019, ma martedì 3 novembre 2020 è arrivato. E gli americani voteranno, ancora. Nonostante, secondo quanto raccontato nel recente libro di John Bolton, lo stesso presidente uscente convenisse con il “collega”, sul fatto che i seggi vengano aperti troppo spesso. Nel 2018 Xi è riuscito a far approvare la rimozione del vincolo dei due mandati, e dal quinto Plenum del Partito Comunista terminato negli ultimi giorni a Pechino sembra emergere un orizzonte presidenziale che guarda fino al 2035.

A quel G20 Xi avrebbe detto a Trump che sperava di poter lavorare con lui per un altro mandato. Sembra passata un’era geologica, così sembrano essere passate due ere geologiche dall’8 novembre 2016, giorno in cui il tycoon dato per spacciato nella sfida a Hillary Clinton si guadagnò l’accesso alla Casa Bianca. E’ opinione comune che Stati Uniti e Cina siano diventati “nemici” a causa di Trump e della pandemia da Covid-19.

STESSA SCENEGGIATURA, NUOVO RITMO

In realtà, in questi quattro anni non abbiamo assistito a ribaltamenti o cambi di sceneggiatura rispetto a quanto stava accadendo già sul finale della presidenza di Barack Obama. Semplicemente, è cambiato lo stile in cui questa sceneggiatura è scritta, ed è cambiata la velocità della trama. Da un dramma politico psicologico si è passati al thriller d’azione con annunci roboanti.

In geopolitica contano le azioni, non le parole. Ma talvolta anche la forma diventa sostanza. I partner asiatici, che Obama stava coinvolgendo in una rete di contenimento della Cina, si trovano molto più a loro agio nelle atmosfere soffuse del dramma psicologico e maledettamente a disagio nello “sparatutto”  (figurato, per ora) trumpiano. Ecco perché, come abbiamo raccontato più volte, i paesi del Sud-est asiatico non si sono fatti “arruolare” da Mike Pompeo sulla vicenda del Mar Cinese Meridionale. Mentre le potenze medie regionali come Giappone e India sembrano sì avvicinarsi ai desiderata di Washington, ma in realtà si muovono per costituire un’alternativa asiatica al Dragone che possa fare a meno di un Big Brother diventato imprevedibile.

Si dice spesso che Trump ha “svegliato” gli Stati Uniti e i partner occidentali e asiatici sul conto della Cina, rendendo manifesta una rivalità che non poteva restare celata dietro la cooperazione commerciale e non. Questo è probabilmente vero. E ciò ha consentito agli Usa di ridurre parecchio il deficit nell’interscambio col Dragone, dopo aver toccato il record del 2017. Il punto è il modo in cui lo ha fatto, cioè provando a costringere a operare scelte non convenienti a livello economico senza offrire in cambio lo status “ideologico” americano.

“NON FARSI FREGARE”

Tutta la politica estera di Trump, in ossequio al suo America First, sembra essere guidata da un principio: non farsi fregare. Da qui gli accordi stracciati con Iran, Messico e Canada, l’annunciato ritiro di militari dal Medio Oriente e dalla Germania, i dazi sui prodotti europei, l’addio al TPP (partenariato trans-pacifico che altro non era che il progetto obamiano di una rete asiatica a leadership americana di contenimento della Cina travestita da accordo commerciale). Persino la messa in discussione degli accordi difensivi con Filippine (in realtà, in questo caso più a causa di Rodrigo Duterte) e con la Corea del sud, cinquantennale caposaldo della strategia americana in Asia orientale.

Ma di fronte a una Cina sempre più sicura, assertiva e proiettata all’esterno tramite la Belt and Road Initiative, la prima superpotenza globale avrebbe dovuto mettere in preventivo qualche “fregatura”, a costo di riaffermare la propria leadership geopolitica. Invece Trump ha messo in discussione tutte le partnership, svuotando il ruolo delle organizzazioni internazionali e acuendo la crisi d’identità (già in corso prima di lui) dei sistemi democratici.

Si guardi alle ripetute dichiarazioni sull’inutilità della Nato, che hanno tra l’altro aiutato l’avventurismo della Turchia tra Medio Oriente e Mediterraneo, a quelle sull’Organizzazione mondiale del commercio, di cui Trump sta bloccando la nomina del prossimo direttore. Oppure l’improvviso addio all’Organizzazione mondiale della sanità, nel bel mezzo della pandemia. Lasciando vuoti da riempire, in cui Pechino ha potuto guadagnare posizioni.

IL TRIANGOLO CON TAIWAN

Un episodio, quest’ultimo, che ha aperto anche diversi occhi a Taiwan. Quantomeno a livello governativo, mentre la stragrande maggioranza dei cittadini taiwanesi continua a sperare nella vittoria di Trump, temendo che con Biden gli Usa diventino più morbidi con la Cina. Ragionamento che appare errato. Il presidente uscente ha dimostrato più volte di utilizzare argomenti e alleati in termini utilitaristici. Ha abbandonato i curdi in Siria, ha cancellato lo status speciale di Hong Kong di fatto non opponendosi ma faciitando l’assimilazione dell’ex colonia britannica a condizione di “semplice città cinese”.

Aveva promesso di aiutare Taipei a rientrare alle riunioni dell’Oms, salvo poi uscirne lui stesso. Ha imposto il ban all’export di chip e semiconduttori verso Huawei, cliente fondamentale per Tsmc, la principale fonderia mondiale che per Taipei rappresenta non solo un pilastro a livello economico, ma anche diplomatico. Seppure il dialogo intrastretto sia azzerato a livello politico sin dall’elezione di Tsai Ing-wen nel 2016, il ruolo di Tsmc aiutava Taiwan a essere fondamentale per Pechino, che nel colosso di Hsinchu aveva un tassello imprescindibile della sua catena di approvvigionamento tecnologica.

Le recenti vendite di armi e visite ad alto livello del segretario alla Salute Alex Azar e del sottosegretario per gli affari economici Keith Krach hanno acceso ancora di più la luce dei riflettori su Taiwan. Sull’isola c’è un vecchio adagio che recita: “Dagli Stati Uniti abbiamo bisogno di una relazione stabile e duratura, non di un’amore appassionato e imprevedibile”. Ecco, se da una parte è innegabile che le azioni di Trump abbiano portato Taiwan al centro del dibattito, dall’altro hanno aumentato considerevolmente i rischi. Tanto da far credere ad alcuni analisti che Formosa possa essere la valvola di sfogo di un confronto indiretto o a bassa intensità tra le due principali potenze. Alle spese, appunto di Taipei, che non vorrebbe o non dovrebbe farsi identificare troppo come la “punta del pennarello” delle strategie anti cinesi di Trump.

LA POSSIBILE PRESIDENZA BIDEN

Che cosa c’è dall’altra parte? E’ presto per capire nel dettaglio quale sarebbe la politica estera di Biden. Ma se ne possono intravedere le linee guida: riaffermare il ruolo della “città sulla collina” americana, rilanciare la presenza nelle organizzazioni internazionali e ristabilire le partnership globali messe in discussione negli ultimi quattro anni. Un’impresa non semplice, ma che verrebbe salutata con favore in molte cancellerie europee e asiatiche.

Per quanto riguarda la Cina, il piano è ormai troppo inclinato per riportarlo perfettamente in orizzontale. Se eletto, Biden non potrebbe dare adito alle accuse di essere “morbido” con la Cina. Tornando però alla sceneggiatura di cui parlavamo all’inizio, lo stile cambierebbe. Meno annunci roboanti, meno “sparatutto” e più political drama. Le limitazioni commerciali potrebbero restare, ma a livello geopolitico si cercherebbe una politica di engagement, che però non trascuri i nodi “ideologici”, con una maggiore insistenza sui diritti umani rispetto a Trump (che in realtà, a parte negli ultimi mesi, aveva del tutto trascurato). Biden potrebbe parlare più di Xinjiang e meno di “virus cinese”.

E soprattutto potrebbe provare a rinsaldare l’architettura della globalizzazione che ha consentito agli Stati Uniti di mantenere la propria leadership globale negli ultimi 75 anni. Anche coinvolgendo la Cina, per esempio in materia di cambiamento climatico. A livello epidermico può sembrare un passo indietro e un favore a Pechino. In realtà, il paventato (e irrealizzabile nella sua totalità) decoupling e la possibile regionalizzazione potrebbero consentire al Dragone di controllare con maggiore sicurezza i suoi nodi interni (primo, vero, obiettivo del Partito Comunista), affermare il proprio ruolo in Asia e in altre regioni come l’Africa, procedendo verso una divisione Sud-Nord che quantitativamente (sia a livello demografico sia nei consessi internazionali) gioverebbe proprio alla Cina.

CHE COSA CONVIENE ALLA CINA

C’è poi da considerare un ultimo aspetto, quello psicologico. Torniamo ai primi due incontri fra Trump e Xi. A Mar-a-Lago la nipotina Arabelle recita in cinese. A Pechino Xi accoglie Trump all’interno della Città Proibita. Da una parte la progenie del presidente della prima (attualmente) superpotenza globale utilizza il verbo della seconda. Dall’altra, la seconda (attualmente) superpotenza globale fa sentire il peso delle sue storia e magnificenza alla prima. Ammesso e non concesso che i dialoghi riportati da Bolton siano veri. Ammesso e non concesso che gli sperticati elogi pubblici di Trump a Xi fossero tattici, a Pechino è per ora convenuto avere a che fare con un one-man-show.

Un one-man-show che nel suo secondo mandato potrebbe anche diventare pericoloso per gli interessi del Dragone, ma che sempre one-man-show potrebbe restare. E che soprattutto potrebbe rimanere la pietra di paragone da offrire al pubblico cinese, e non. La gestione disastrosa della pandemia da Covid, la frammentazione interna e le spaccature acuite da un presidente che governa solo per i suoi seguaci. Tutti elementi per dire: “Sicuri che le democrazie occidentali funzionino meglio del modello cinese?” Un modello che nominalmente è ancora socialista ma che con Xi rivendica senza indugi il suo carattere millenario.

[Pubblicato su Affaritaliani.it]