Saturazione mediatica. Gli spazi pubblici delle principali città ne sono affetti da circa un decennio, con sintomi che vanno dalla proliferazione incontrollata di schermi al LED, come nel caso di Tokyo, al bombardamento audio dei sermoni per le strade del Cairo, sino ai sistemi di sorveglianza invisibili e inudibili che coprono ormai quasi tutta la superficie terrestre. Il rischio è quello di un degrado della comunicazione pubblica “face-to-face”, progressivamente rimpiazzata da forme mediate e “commercializzate”. L’inaspettato vantaggio, però, potrebbe essere la nascita di nuovi spazi pubblici e la diffusione di innovative modalità di fruizione delle aree condivise.
Public Space, Media Space, di Chris Berry, Janet Harbor e Rachel O. Moore, nasce da un’analisi comparata del fenomeno della “public screen culture” nelle città di Shanghai, Londra e il Cairo. Dopo lo splendore degli anni ’90, Shanghai ha progressivamente perso il ruolo di mecca del cinema cinese. Così oggi, mentre l”industria dell’entertainment locale cigola, la New York d’Oriente presta il proprio skyliner a noti blockbuster quali Mission Impossible 3, Looper e l’ultimo Bond, scoprendosi improvvisamente capitale di un altro “grande schermo“. Immagini in movimento si fanno promotrici di servizi pubblici e messaggi pubblicitari proiettate da dispaly di ogni dimensione. E sono ovunque: sui taxi, nella metro, in cima ai palazzi, all’ingresso dei complessi residenziali.
Per la maggior parte, sia i contenuti trasmessi che gli schermi stessi -frutto di una tecnologia abbastanza dispendiosa- rientrano in una cultura “neoliberista” e globalizzata, che individua nello spazio pubblico un luogo di piacere individuale nel quale consolidare la propria immagine attraverso il consumo. Quali siano le declinazioni propriamente cinesi della “public screen culture” gli autori del testo cercano di spiegarlo prendendo in esame alcune manifestazioni autoctone come gli zouzi, ovvero i caratteri che scorrono lungo strisce di LED. Ma è sopratutto Wujiaochang (Pentagon Plaza, per chi non mastica il cinese) ad aver catturato il loro interesse.
Situata nel distretto di Yangpu, nella parte nord-est di Shanghai, Wujiaochang costituisce una shopping area e un centro di intrattenimento per i residenti della zona. Non vederla è impossibile, anche a chilometri di distanza: un gigantesco schermo sulla cima del centro commerciale Wanda Plaza si unisce all’illuminazione urbana in un concerto di luci che al calare della sera irradia dalla piazza. Proprio qui, d’estate, confluisce la popolazione locale armata di stereo per smaltire la cena appena consumata con un tango, una rumba o lanciandosi in un ballo di gruppo. E improvvisamente tradizione e modernità si fondono dando vita ad una cultura degli spazi pubblici che trascende il principio insidioso del “più spendo più mi diverto“; come se gli abitanti di Shanghai desiderassero qualcosa di diverso da una cultura dei consumi tout court.
Come vanno considerati tali attività ricreative nelle cornici urbane cinesi? Sono la prova di quello che lo scrittore-regista francese Guy-Ernest Debord definisce “spettacolo integrato“, ovvero dove si finisce per non prestare più attenzione a ciò che viene trasmesso sullo schermo, ma si diventa parte di questo vivendolo in prima persona? In una Cina ancora animata dai ricordi delle difficoltà economiche del socialismo pre-riforme, quest’attrazione per la “public culture” -realizzata perlopiù in shopping area- potrebbe essere proiezione di un desiderio inconscio verso un consumo ancora maggiore? O è, invece, parte di una strategia d’appropriazione degli spazi commerciali da parte dei cittadini locali; quasi una forma di resistenza messa in atto da chi, rimasto indietro nell'”arricchimento glorioso” degli ultimi trent’anni, non si può permettere di sfruttarli da consumatore?
Nell’imbarazzo di dover dare una risposta conclusiva ad una questione niente affatto semplice, Public Space, Media Space si chiude lasciando insoluti una serie di interrogativi. E in effetti, quando ci si addentra a fondo nella materia, si finisce fin da subito per calpestare terreni scivolosi. Cosa s’intende per spazio pubblico? Come sottolinea Peter G. Goheen, autore di Public Space and the Geography of the Modern City, tra gli addetti ai lavori sono emerse due tendenze contrastanti: una che individua nello spazio pubblico un luogo di dinamismo della sfera sociale, un’altra che ne lamenta la progressiva svalutazione sotto il sistema capitalistico. Nella fattispecie cinese entrambe le definizioni risultano vere.
Il concetto di spazio pubblico ha valicato la Muraglia alla fine dell’Ottocento, in concomitanza con la rivoluzione dei trasporti e l’introduzione di “moderni” modi di produzione. Ma per entrare nel vivo del dibattito teorico bisogna aspettare gli anni ’80 del secolo successivo, quando Philip C.C. Huang introdusse l’idea di un “cultural public space” inteso come “spazio intermedio tra Stato e società, nel quale entrambi partecipano“.
La presenza nelle antiche città cinesi di alti muri divisori intorno alle abitazioni e ai parchi ha precluso per secoli la fioritura di una “vita di strada”, mentre i templi hanno costituito praticamente l’unico luogo di ritrovo. Anche, nell’Ottocento, dopo l’apertura al commercio internazionale dei treaty ports, le città cinesi continuarono a mantenere la loro peculiare divisione interna in spazi racchiusi da recinzioni; una caratteristica, tuttavia, meno marcata nel sud del Paese. E nemmeno dopo il 1949 la pianificazione urbanistica di stampo sovietico, con le sue immense piazze pubbliche e i suoi viali monumentali, riuscì a far crollare i muri secolari del Celeste Impero.
Poi arrivarono le riforme di mercato e con loro standard e modelli internazionali. A piccoli passi prima una progressiva attenzione all’architettura del paesaggio (1978-1991), seguita dalla proliferazione di piazze e strade pedonali su gusto occidentale (1992-1999), fino ad approdare alla moda delle aree verdi di inizio secolo. La sublimazione dello spazio urbano di epoca maoista venne riassunta nel principio “più aperto e più pubblico“. E se all’epoca del Grande Timoniere la piazza aveva principalmente valenza politica, ospitando dimostrazioni di massa, dagli anni ’80 in poi diventa luogo di svago e meta prediletta dei cittadini nelle calde serate estive. Uno spazio multifunzionale che, sulla scia della liberalizzazione economica, comincia ad offrire una vasta gamma di servizi, attività ricreative e di compravendita. Ma non ha nemmeno assaporato il suo nuovo status che potrebbe averlo già perso.
E’, infatti, opinione diffusa in Occidente che la conversione di un luogo al “consumo” ne snaturi la sua caratteristica di spazio pubblico in senso proprio. Tanto che il geografo Jon Goss etichetta gli shopping mall come “pseudospace“. Motivo? Sebbene la maggior parte dei consumatori li consideri “pubblici”, in realtà questi posti sono sottoposti ad una costante sorveglianza e “fingono di essere spazi civici anche se sono privati e votati al profitto. Offrono un luogo di comunicazione e svago mentre cercano di fare soldi“. Tanto per avere un’idea, nel 2008 sei dei venticinque shopping center più grandi al mondo si trovavano proprio in Cina.
Quello stesso anno Pechino si apprestava ad accogliere le Olimpiadi, alle quali si era preparata da tempo perseguendo una campagna dal nome eloquente: “Green Beijing, Green Olympics“. Un’operazione di maquillage grazie alla quale la capitale cinese è riuscita a presentarsi ai visitatori stranieri più verde ed ecofriendly. Proprio nei giardini pubblici, in netto aumento dall’avvio delle riforme anni ’80, i cinesi tutt’oggi si sbizzariscono in performance che spaziano dalle danze, all’opera, fino alla calligrafia. Attività ricreative nelle quali il passante casuale molto spesso dismette i panni dello spettatore per salire sul palcoscenico, come nel caso degli abituè di Wujiaochang.
“Queste attività vanno analizzate da una prospettiva macroscopica. Tanto per cominciare sono visibili in molte città della Cina, non soltanto a Pechino e Shanghai” ha spiegato a China Files Jiang Fei, researcher presso l’Institute of Journalism and Communication dell’Accademia cinese di scienze sociali, nonché direttore del Center of Global Media & Communication Studies “i partecipanti le considerano un mix di intrattenimento, relax, esercizio fisico ma anche di interazione sociale. Non danno peso al fatto di essere osservati perché si sentono ‘salvi’ in quanto si trovano già in mezzo alla folla“.
Che si sentano più spettatori o attori, per Jiang la sostanza non cambia. “Il fatto di ballare in pubblico o di venire guardati da altri non entra in conflitto con il fatto di guardare a propria volta o consumare su larga scala. Lo scorso anno, in Cina, il box office complessivo ha raggiunto 17,1 miliardi di renminbi. Non possiamo dire se a queste cifre abbiano contribuito anche quei ballerini di strada, ma non ci sono dubbi che se non altro guardano molta tv“.
Nella realtà magmatica di un Paese che ha cambiato volto nell’arco di pochi lustri la necessità di punti fermi è ormai impellente. Una ricerca condotta dall’Istituto di Sociologia dell’Accademia cinese delle scienze sociali -riportata alcuni mesi fa dal Quotidiano del Popolo– rivela che il 70 per cento dei cinesi intervistati non si fida più degli estranei, evidenziando un chiaro senso di diffidenza verso il sistema sociale in cui vive. Una crisi di credibilità generale che la testata di Partito imputa principalmente al processo di urbanizzazione avviato negli anni ’80 senza una pianificazione scientifica.
“La Cina si trova ancora in una fase primaria del socialismo” conclude Jiang “la gente conserva ricordi vividi delle carenze economiche del passato, sopratutto gli over 40, ma sanno anche bene cosa voglia dire dover far fronte all’impennata dei prezzi. Ballare nei nuovi spazi urbani è un modo per riprendere fiato, per sentirsi parte ‘di un tutto’. E questa routine quotidiana dà loro un grande senso di sicurezza“.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.