Urban Asia – La Singapore di Rem Koolhaas

In by Simone

L’urbanistica è tornata a essere un tema politico. E la città un nodo decisivo per la progettazione del futuro. Rem Koolhaas usa Singapore per spiegare il modello di ‘città generica’. China Files vi regala un articolo di Urban Asia, la rivista gratuita per iPad e a 3€ per Kindle nata dalla collaborazione con il manifesto.
L’urbanistica è tornata a essere, dopo l’esplosione economica di paesi come Cina, India, Brasile, un tema politico. E la città un nodo decisivo per la progettazione del futuro. Questo implica che si abbia un’idea chiara di come si vorrebbe il mondo. Ovvero, urbanistica e architettura. O, meglio, un modo di intendere l’architettura. Di questa si può discutere fondamentalmente in due modi, ricordava spesso un grande maestro come Giancarlo De Carlo: o come se fosse un’attività autonoma che si definisce da sola, attraverso quel che produce con gli strumenti della sua propria specializzazione (quindi i suoi oggetti: gli edifici e le opere); oppure come fosse un sistema di comunicazione e di espressione che si può decifrare soltanto se si conosce il contesto in cui sono emessi e ricevuti i messaggi (quindi i processi di interrelazione con le vicende umane). Entrambi i metodi, se di metodo si può parlare, forniscono indicazioni importanti. Ma il secondo porta più lontano.

Lo sa bene Rem Koolhaas, cha da anni non si limita a praticare l’architettura in senso stretto – nonostante le sue opere siano considerate, a ragione, fra le più stimolanti del recente panorama architettonico. Giusto per avere un’idea, basti dire che ha firmato il Netherlands Dance Theatre dell’Aja; la biblioteca pubblica di Seattle; il rinnovamento architettonico di Lille con il Grand Palais e l’avveniristico Euralille, che comprende la stazione del tgv sulla linea che unisce Parigi e Bruxelles a Londra; e poi l’ambasciata olandese a Berlino, l’Auditorium di Porto, il Kunsthal di Rotterdam, il gigantesco complesso residenziale di Fukuoka in Giappone, gli studios della Universal a Los Angeles, il negozio Prada a New York (che in qualche modo ha rivoluzionato il concetto stesso di shopping). Per non parlare poi del colossale quartier generale della televisione cinese a Pechino, o il Campus di Chicago realizzato sui disegni di Mies van der Rohe. Insomma, un protagonista, un simbolo degli ultimi vent’anni architettonici celebrato come una vera e propria star – viatico del passaggio millenario coronato con il prestigioso Premio Pritzker, il “nobel” dell’architettura ricevuto nel 2000.

Ma Koolhaas non è solo questo. Fra un edificio e l’altro, ha trovato il tempo per imporsi come acutissimo teorico, visionario e al tempo stesso concreto, famoso per le sue idee radicali e poco convenzionali.

Indaga soprattutto città e megalopoli in movimento perché in espansione, che raddoppiano o triplicano le loro dimensioni in pochi anni: Lagos, le città cinesi del delta del Pearl River, Dubai. La sua parola chiave è “accelerazione”. La citazione di Lee Kuan Yew in apertura di Singapore Songlines (Quodlibet, 2010) sottolinea appunto il tema della velocità urbana: «Singapore è un posto molto piccolo, in un mondo molto molto grande, vario e mutevole, e se non sarà agile e veloce nell’adeguarsi, perirà e la gente lo sa». Così come nel caso di Las Vegas indagata da Venturi, Scott Brown e Izenour nel 1968, le città africane, arabe o asiatiche studiate da Koolhaas e dai suoi studenti sono luoghi sottovalutati dagli accademici occidentali e anzi quasi rimossi, deprecati per il loro folle e incomprensibile sistema di vita. E invece queste città sono importanti perché ci permettono di porci una domanda: come saranno le città del futuro?

E Koolhaas va a guardare a Singapore, l’isola asiatica sorta meno di 50 anni fa che rappresentava la Città futuribile: effetto congiunto di un’impetuosa crescita economica e insieme di una nuova forma di democrazia autoritaria. Lee Kuan Yew ha realizzato quello che Koolhaas chiama il “parossismo dell’operativo”, ovvero una nuova città interamente costruita in tempi rapidi, priva di storia e di tutti quegli archetipi spaziali che noi in Europa riteniamo necessari e fondamentali affinché vi sia una città: strade, piazze, vie…

La specificità di Koolhaas è la sua inclinazione ad analizzare insieme uomini e città senza distinguere mai fra Natura e Artificio, con la freddezza e la lucidità di un etologo. Scrive per esempio nella scioccante introduzione che «Singapore Songlines è dunque anche l’esplorazione di un sistema politico diverso da quello che l’Europa considera “naturale”. Investiga le conseguenze di quel sistema sulla città che ne emerge». Tale inclinazione, deleuziana (e in fondo spinozista), permette a Koolhaas di saltare a piè pari tutte le ideologie con cui gli occidentali hanno giudicato i paesi postcoloniali e di sospendere ogni giudizio morale per meglio osservare il funzionamento di quei mondi lontani. In quest’ottica lo studio dell’architetto olandese dedicato alla città-stato asiatica va considerato, come egli stesso scrive, l’«ultimo ritratto di una città reale esistente». E racconta una profezia, in sostanza avveratasi: «È stato a Singapore che, spossato dalle minuziosità della ricerca, ho sentito improvvisamente che stavo iniziando ad afferrare l’essenza non solo di quella città, ma di ogni città nuova, ed è qui che ho scritto, spinto da un impulso febbrile, la prima stesura della Città Generica, una versione un po’ camuffata, astratta e generalizzata di Songlines».

Koolhaas dice in sostanza che l’essenza di Singapore è quella di ogni nuova città. Quando scriveva, nel 1995, guardava allo sviluppo urbano cinese, e indicava appunto il modello della città generica come fonte per le nascenti megalopoli in Cina (e così, sostanzialmente, è stato). Nel prologo all’edizione italiana rilancia, e la sua profezia si allarga a tutte le città: l’artificiosità di Singapore ha messo le radici e, pian piano, sta crescendo anche nell’ecologia delle nostre città, «dall’ubiquo inserimento di prati e zone piantate ad arbusti, al pulito splendente, all’ossessione del controllo». Ecco allora che il modello di Singapore è, già ora, il prototipo di ogni città e rappresenta perciò il nostro futuro: «Songlines suggerisce che la città-stato è una sorta di laboratorio semantico dove le sconcertanti questioni che caratterizzano la nostra epoca, come la coesistenza razziale, sono state esaminate prima che divenissero enormi impasse o crisi nel nostro continente. Gli esperimenti svolti a Singapore vent’anni fa non sono così diversi da quelli nell’Europa di oggi – nella semplificazione dell’educazione, nella medicina, nelle relazioni fra etnie».

Insomma, «siamo meno diversi da Singapore di quanto speravamo», conclude Koolhaas. A questo punto è utile capire in cosa Singapore debba considerarsi un modello. L’architetto olandese è chiaro: è proprio la sua “non fondazione” a essere la traccia principale da seguire nella progettazione architettonica e urbanistica del futuro. O meglio: una fondazione dal nulla. La città qui pensata è una città senza luogo, una città – come ha giustamente osservato Dario Gentili – «la cui forma è oggetto costante di trasformazione e, pertanto, è questa stessa forma a diventare “regolatrice” del luogo e dell’identità collettiva».

È appunto la città generica, quella sorta da una tabula rasa e pianificata, pensata e imposta dall’alto. Non ha avuto un movimento proprio delle città canoniche: il suo movimento è dato dal non fondarsi, da un’origine non individuabile, se non nella decisione senza appello, arbitraria, del gesto politico dell’origine e della fondazione – come se ci muovessimo fra i terreni del mito, e non quelli fatti di edifici, strade e giardini. Perciò Songlines è anche un testo che esplora un sistema politico differente da quello, per noi naturale, della democrazia: parliamo qui di un sistema autoritario, quello che ha sovrinteso la costruzione di Singapore. E pone diversi interrogativi su questo sistema e le sue conseguenze sulla città. Proprio questa è la parte più interessante e anche controversa del testo di Koolhaas. Se, come sostiene l’architetto, la città generica è anche il futuro delle nostre città occidentali, allora a ragione bisogna interrogarsi sul sistema politico che genera questo modello (uno stile senza uno stile, un’urbanizzazione senza progetto).

Ha perciò ragione, ancora, Dario Gentili, che pone con forza il tema di Koolhaas: «L’ultima differenza che, per Koolhaas, ancora sussiste tra queste due vie all’occidentalizzazione, l’asiatica e l’europea, è di natura politica. L’urbanizzazione di Singapore, infatti, ha una genesi non democratica, autoritaria. Perché, tuttavia, non essere radicali fino in fondo, decostruendo anche le ultime resistenze ideologiche: se è vero che la Città Generica si sta diffondendo anche in Europa, il carattere non-democratico della sua genesi orientale non trova un corrispettivo nei nostri regimi “compiutamente” democratici, pienamente “formalizzati” e “omogenei”, dominati dalla dittatura della maggioranza e dei sondaggi? L’“autoritarismo senza autore” o il “fascismo senza dittatore”, di cui scrive Koolhaas in Junkspace, non sono forse formule che, da Singapore all’Europa, per vie diverse, rappresentano il medesimo esito dell’“occidentalizzazione”?».

* Marco Filoni, dottore di ricerca in Storia della filosofia, svolge attività di ricerca in varie università in Italia e all’estero. Scrive per le pagine culturali di Repubblica e del Venerdì. Fra i suoi libri più recenti: Lo spazio inquieto. La città e la paura (Edizioni di passaggio 2013); Kojève mon ami (Aragno 2013); Le philosophe du dimanche, Gallimard 2010 (in italiano Il filosofo della domenica. La vita e l’opera di Alexandre Kojève, Bollati Boringhieri, Torino 2008).

** Il testo è tratto da Sguardi sulle città in trasformazione, a cura di Laura Ricca (2012, ed. La Mandragora)