Nel golfo del Bengala, ad alcune ore di navigazione dalla città portuale bangladese di Chittagong, c’è un isolotto. La gente del posto lo chiama Thengar Char, qualcun altro Bhasan char (o Bhashan char), che in lingua bengali significa “isola fluttuante”.
Venti anni fa non esisteva: si è formato con l’accumulo dei detriti del Meghna, un fiume lento e possente che nasce sull’Himalaya e finisce nella baia di Bengala.
È qui che il governo di Dacca la scorsa settimana ha trasferito, con una complicata operazione logistica che ha coinvolto vascelli della Marina militare e le forze speciali “Rab” (Rapid Action Battalion), circa 1.600 Rohingya. Fino a due giorni fa abitavano nei campi profughi di Teknaf o Ukhia, nel distretto di Cox Bazar, ultimo lembo di territorio nel sud-est del Bangladesh, al confine con il Myanmar.
Sono una piccola parte di quei 750.000 Rohingya che nell’agosto del 2017 sono sfuggiti alla sanguinosa operazione militare dei militari birmani. A Cox Bazar, in uno dei Paesi con la più alta densità abitativa al mondo, da allora c’è una comunità di rifugiati da più di un milione di persone, inclusi i Rohingya arrivati in passato.
I 1.600 ROHINGYA trasferiti ieri a Bhasan char non sono i primi e probabilmente non saranno gli ultimi: per “decongestionare” i campi di Cox Baxar, Dacca intende infatti trasferirne almeno 100.000 su Bhasan char.
“Un’isola prigione” in cui i Rohingya saranno confinati, contestano molti esponenti delle organizzazioni per i diritti umani. “Un’isola fantastica”, replica invece Ahmed Mukta, l’architetto che con lo studio Mukta Dinwiddie MacLaren Architects ha trasformato l’isola fluttuante in una vera e propria cittadina-galleggiante.
LA STORIA DI BHASAN CHAR inizia diversi anni fa. Nel novembre 2017 il governo bangladese ha approvato “Ashrayan-3”, un progetto da 250 milioni di euro per rendere l’isolotto abitabile e trasferirci 24.000 famiglie Rohingya. Subito dopo, quando siamo approdati per la prima volta a Bhasan char, sull’isola non c’era nulla: terra limacciosa, ciuffi d’erba, qualche albero di mangrovia, uccelli migratori.
Nizamudin, il pescatore trentenne che ci accompagnava dalla vicina isola di Sandwip, si diceva sicuro: “Non è un posto per vivere. Qui ci vengono solo gli uccelli”.
Nel 2019 tornarci è stato molto più difficile. I pescatori e i commercianti delle isole vicine, da Sandwip ad Hatiya, erano riluttanti. Ogni giorno partiva qualche barca, ma era riservata agli operai che stavano costruendo “la città dei Rohingya”. Non ai giornalisti o ai curiosi. “Senza un permesso non possiamo portarti. Rischiamo che ci sparano addosso”, ripetevano tutti, prima che uno si convincesse a rischiare.
Si riferivano agli uomini della Marina militare, a cui il governo guidato dalla premier Sheikh Hasina, al potere dal 2009, ha affidato la gestione del progetto. Che ieri è stato rivendicato dalle autorità di Dacca, in particolare dal ministro degli Esteri, Abul Kalam Abdul Momen, che è tornato a elencare i servizi sull’isola: 1440 edifici, inclusi 120 rifugi anti-ciclone, 2 ospedali e 4 cliniche comunitarie, moschee, stazioni della polizia, torrette di guardia.
E un sistema di paratie esterne costruito dalla HR Wallingford, una società inglese di consulenza in ingegneria idraulica, e dalla compagnia cinese Sinohydr. Un barriera sufficiente a impedire che l’isola finisca sott’acqua, assicurano le autorità.
UN’ISOLA CHE è instabile. Ci troviamo infatti in una delle aree ecologicamente più fragili al mondo. Secondo il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, il Bangladesh è il primo Paese al mondo per vulnerabilità ai cicloni tropicali. Cicloni, alluvioni, tempeste e mareggiate sono frequenti.
La costa meridionale e le isole della zona, un’area in cui vivono 35 milioni di persone, è strattonata da bufere potenti, favorite dal riscaldamento del golfo del Bengala. Acque sempre più calde e più alte. La media globale dell’innalzamento del livello del mare è di 3,3 millimetri l’anno. Nell’isola di Hatiya è di 5.7 millimetri.
Nella vicina Bhasan Char nessuno l’ha mai misurata, ma i dati e le immagini satellitari dell’Agenzia spaziale europea mostrano che negli ultimi cinque anni l’estensione totale dell’isola dei Rohingya è fluttuata tra i 40 e 76 chilometri quadrati. Da una parte perde terra, erosa, dall’altra ne accumula con i sedimenti del fiume. Un’isola dinamica, instabile.
TRASFERIMENTI FORZATI. Il piano per il trasferimento di 100.000 Rohingya è stato più volte rimandato anche per queste preoccupazioni sulla stabilità morfologica dell’isola. A opporsi sono state le organizzazioni per i diritti umani e le stesse Nazioni Unite, che chiedono da tempo un’inchiesta indipendente.
Il commodoro Mamun Chowdhury, a capo del progetto Ashrayan-3, ieri però si è detto convinto che l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni si convinceranno presto, non appena vedranno i lavori realizzati sull’isola. Ma gli attivisti per la tutela dei diritti dei Rohingyia accusano il governo di aver forzato molti Rohingya a trasferirsi.
Secondo diverse testimonianze raccolte dai media, alcuni Rohingya avrebbero subito pressioni, intimidazioni, minacce. Qualcuno sarebbe stato indotto con l’inganno a includere il proprio nome nella lista. Secondo Human Rights Watch, i Rohingya avrebbero ricevuto scarse informazioni sulla destinazione, a volte informazioni false.
Il trasferimento è avvenuto su base volontaria, replica invece il ministro degli Esteri, Momen, che nei mesi passati aveva minacciato: se i Rohingya si rifiutano, “li trasferiremo con la forza”. O con l’inganno.
UN’ISOLA PRIGIONE. Così è accaduto a maggio. Dopo essere fuggiti dai campi di Cox Bazar, dopo aver tentato di raggiungere via mare la Malesia, dopo essere stati respinti e dopo essere rimasti alla deriva per settimane, circa 300 Rohingya sono stati tratti in salvo dalla Marina militare bangladese. E trasferiti su Bhasan Char. “Solo per il tempo della quarantena”. Per evitare la diffusione del virus nei campi, dicevano le autorità.
Sono ancora lì. A vivere su un’isola prigione, secondo le testimonianze raccolte a settembre dal quotidiano The Guardian e dai ricercatori di Amnesty International nel dossier “Let Us Speak for Our Rights”. Cibo scarso, sovraffollamento (fino a 5 persone costrette in stanze da 15 metri quadrati), scarsa assistenza sanitaria, acqua contaminata, obbligo di restare negli alloggi, libertà di movimento negata.
E abusi sessuali o veri e propri stupri da parte dei poliziotti sull’isola ai danni di alcune donne. A dispetto di questo e delle tante obiezioni raccolte in questi mesi, per il ministro degli Esteri bangladese la decisione di avviare i primi trasferimenti è un atto “prudente e decisivo” della prima ministro Sheik Hasina.
E un modo per costringere la comunità internazionale a esercitare pressioni sul Myanmar affinché accetti di far rientrare nello Stato del Rakhine i Rohingya. L’isola di Bhasan char, dicono a Dacca, “è una soluzione temporanea”.
Di Giuliano Battiston
[Pubblicato su il manifesto]