Un’interpretazione della “nuova sinistra” cinese (parte seconda)

In by Simone

Di seguito la seconda parte dell’articolo relativo al dibattito politico cinese intorno alla Nuova Sinistra. Qui trovate la prima parte. A questo indirizzo invece potete scaricare la versione totale dell’articolo in pdf.
Buona lettura!

All’inseguimento delle tigri
In seguito al “viaggio nel sud” di Deng Xiaoping nel 1992, entrò in pieno vigore un signifcativo riorientamento dell’economia cinese, che segnò il passaggio da un sistema pianificato e centralizzato con mercati limitati ad una sorta di capitalismo autoritario in linea con le “tigri asiatiche”. Nove città del Nord-Est e del Nord-Ovest e cinque città sullo Yangzi furono aperte al commercio e agli investimenti esteri. Nuovi esperimenti sul mercato delle azioni e sulla proprietà privata, nonché la garanzia di una piena autonomia di mercato per le imprese statali, accompagnarono queste riforme (16).

Questi passaggi segnarono l’inizio della gigante ristrutturazione delle imprese statali che persiste ancora oggi e che ha prodotto licenziamenti degli operai con proporzioni senza precedenti. Secondo le statistiche ufficiali, nel decennio che va dal 1993 alla fine del 2002, i licenziamenti dalle imprese statali e dalla collettività urbana sono ammontati a 63 milioni di posti di lavoro, con le maggiori perdite registrate dopo il 1997, un dato che corrisponde ad una diminuzione complessiva del 44% dell’occupazione nel settore statale (17). Oltre ai licenziamenti, il processo di urbanizzazione ed i cicli di crescita e diminuzione demografica di impronta capitalistica hanno cominciato a definire in Cina una nuova via verso lo sviluppo.

La risposta di Cui Zhiyuan a questi cambiamenti fu la promozione di un “ritorno” al nuovo esperimento sociale del pre-1992. Nel 2004 Cui cominciò a promuovere l’idea che definì come «socialismo della piccola borghesia.(18)» Voleva indicare una sorta di socialismo di mercato in grado di fondere i mezzi di produzione sia delle proprietà collettive che di quelle statali con il mercato e la proprietà privata. Cui considerava gli scritti economici dei “socialisti” europei come John Stewart Mill, Henry George e Pierre-Joseph Proudhon, degli esempi alternativi alla nozione ortodossa di capitalismo e socialismo. I suoi ragionamenti erano anche in debito con il pensatore americano e analista del marxsismo John Roemer (19).

Prendendo assieme lo sviluppo dell’idustria rurale, la democrazia politica ed economica ed il socialismo di mercato, otterremo il disegno di base di quella che sarebbe stata l’alternativa cinese, nella visione di Cui Zhiyuan.

D’altronde da questa stessa visione emergono alcune ovvie problematiche. Prima di tutto, come lo stesso Wang Hui ha fatto notare, questo disegno comprende un’ingenua convinzione, secondo cui le riforme sarebbero in grado di modellare significativamente i contorni di un’economia orientata dal capitalismo. In secondo luogo, presupponendo di accettare le riforme come strategia di cambiamento, queste sarebbero da considerare una conquista dal basso o una concessione dall’alto? Quale sarebbe il ruolo dello Stato nel promuovere un’alternativa cinese, e in cosa esso differirebbe dalle strategie liberali di tacito supporto e di manovrazione dell’influenza politica? Cui ritiene che la Cina si stia muovendo verso questa alternativa? In caso affermativo, cosa lo rende critico verso questo processo?

Sia Wang Hui che Cui Zhiyuan, sebbene riconoscano all’epoca marxista alcuni aspetti positivi, tracciano le proprie radici nella tradizione “umanistico-marxista” che diede i suoi frutti negli anni ottanta; d’altra parte condividono una discendenza con le tradizioni precedenti, come ad esempio quella del movimento del 4 maggio (1919-1927).

Questa sembra essere una chiara divisione all’interno della Nuova Sinistra: alcuni esponenti come Wang, Cui e Gan Yang, hanno abbracciato lo spirito critico e pluralista del 4 maggio (sostenendo contemporaneamente un vago socialismo di mercato), mentre altri hanno chiaramente affermato una devozione ideologica ad una sorta di “neo-maoismo”. Quest’ultimo gruppo includerebbe studiosi come Gao Mobo, Li Minqi e Han Yuhai. Altri, invece, si definiscono con un programma più “convenzionale” di nazionalizzazione della produzione e di democrazia socialista. Questa terza posizione è ben rappresentata da Wang Shaoguang.

Convergenze

Nonostante questi impegni ideologici siano alquanto diversi tra loro, ci sono alcuni punti in cui i membri del Nuova Sinistra di fatto convergono. A parte la loro ovvia opposizione al neo-liberalismo, la maggior parte di coloro che sono associati alla Nuova Sinistra hanno sfidato, chi più chi meno, l’interpretazione ufficiale che il Partito Comunista ha dato del maoismo.

Quest’ultimo è solitamente caratterizzato dalla tendenza a trattare la Rivoluzione Culturale come un rifiuto della politica economica di stile sovietico e come una lotta della Cina al fine di trovare la propria strada. La nozione di maoismo come alternativa cinese è qualcosa che ha ricevuto una considerevole attenzione sia all’interno che all’esterno della Cina fin dagli anni sessanta, e continua a caratterizzare in modo preminente il dibattito all’interno della Nuova Sinistra. Alla luce di questo sarebbe utile riassumere brevemente le posizioni sull’argomento e le varie implicazioni che ne risultano.

Come posizione ideologica il maoismo è alquanto difficile da identificare. Questo è dovuto in parte alle diverse fasi della vita di Mao Zedong ed ai conseguenti cambiamenti nel suo pensiero che hanno accompagnato queste fasi. Inoltre, è anche duvuto alla difficoltà nel separare il pensiero di Mao dalle azioni del PCC come insieme. I maoisti tendono ad evidenziare le differenze tra Mao e l’ortodossia leninista del PCC. Questa conclusione è spesso il frutto di un esame accurato degli scritti di Mao, in particolare della sua Critica all’economia sovietica 20, che venne stampata durante i primi anni della Rivoluzione Culturale.

Per i suoi sostenitori, il pensiero di Mao Zedong rappresenta non solo un’alternativa alla democrazia liberale capitalista ma anche alla transizione sovietica verso il “capitalismo di stato”. In realtà l’intera nozione di socialismo con “caratteristiche cinesi”, che divenne popolare durante il periodo delle riforme, è stata in gran parte portata avanti dalla precedente retorica maoista.

Secondo i maoisti il modello del socialismo maoista è esemplificato dalla rivoluzione contadina, dall’industrializzazione rurale e dall’autosufficienza locale e nazionale, dalla parziale decentralizzazione dell’autorità economica e politica, dalla partecipazione politica delle masse, dall’integrazione del lavoro mentale e manuale e dalla grande enfasi alla lotta di classe e al volontarismo (21).

In questa interpretazione (che ironicamente è simile alla valutazione del PCC del 1981, se non per i valori che vengono negati), la Rivoluzione Culturale viene prepotentemente posta in primo piano come il tentativo da parte di Mao di guidare le masse in una rivolta contro la burocrazia di partito e verso la creazione di un futuro comunista egualitario e democratico. Se dovessimo prendere come vere queste affermazioni, allora il maoismo dovrebbe essere considerato sicuramente molto meno autoritario dello stalinismo.

Ad ogni modo, questo ritratto del maoismo comporta alcuni problemi significativi. In prima analisi, esso prende gli scritti di Mao ed i professati impegni ideologici come valori assodati, aggirando opportunisticamente gran parte dell’economia politica reale maoista. I disastri associati al Grande Balzo in Avanti ed alla Rivoluzione Culturale sono spesso descritti colpevolizzando i burocrati del partito (opposti a Mao) per i loro fallimenti, o asserendo che la vera storia di quegli eventi è stata distorta nell’era post-maoista. Se è lecito ammettere che il rifiuto del maoismo e la restaurazione di una “ortodossia” marxista-leninista dopo il 1978 hanno servito un chiaro disegno politico, accettare l’idea di un distacco totale del maoismo dalla propria essenza all’interno del Partito Cominista Cinese è tutt’altra cosa.

Questo impegno non solo è arduo ma oscura molti dei possibili parallelismi tra Mao e PCC. Come possiamo guidicare il maoismo sulla base del singolo pensiero di Mao Zedong? Dopotutto lo stesso Mao tradì buona parte della sua retorica “maoista” durante la Rivoluzione Culturale, voltando le spalle ad una ristrutturazione delle Comuni Popolari su basi maggiormente autonomiste,  rivoltandosi contro la rivoluzione operaria di Shanghai e contro i vari gruppi dell’ultra-sinistra, o anche normalizzando i rapporti con gli Stati Uniti (22).

Sicuramente anche le azioni di Mao e non solo le sue parole sono fondamentali per una valutazione della sincerità del maoismo e della Rivoluzione Culturale.
Il secondo problema correlato con questo ritratto del maoismo risiede nei mezzi e nella strategia. Mentre i dichiarati obiettivi del maoismo, presi per il loro valore essenziale, potrebbero essere degni di rispetto, il problema di come realizzare questi obiettivi è stato messo da parte sebbene importante. Questa osservazione è strettamente legata al dibattito sul maoismo come reale alternativa pratica.

Nonostante la Rivoluzione Culturale ed alcuni aspetti delle politiche economiche maoiste rivendicassero chiaramente una decentralizzazione del potere rispetto al partito, essi comportarono tuttavia una centralizzazione ideologica intorno alla figura dello stesso Mao. Mentre Mao presentò la frattura con gli altri membri di massimo grado del PCC come il conflitto del «socialismo contro lo stato capitalista,» allo stesso modo essa sembra essere correlata con il ruolo del controllo ideologico delle forze di produzione che si stavano sviluppando in Cina (in atto per l’edificazione della Cina moderna).

Tutto questo ripropone la questione della sincerità della Rivoluzione Culturale come una genuina sfida allo status quo e come un percorso alternativo al socialismo. Non si può praticare un lavaggio del cervello, manipolare e costringere la gente alla rivolta con lo scopo di promuovere un qualsiasi tipo di emancipazione potenziale. Tutto ciò ha più a che vedere con l’obbedienza che con la ribellione. A tal proposito, può essere utile proporre l’analisi di Arif Dirlik, che entra nella contraddizione tra il significato ed i fini del maoismo:
«[…] La Rivoluzione Culturale è stata indirizzata al fallimento poiché le politiche che l’hanno motivata, se fossero state perseguibili, avrebbero richiesto un diverso contesto politico e sociale rispetto alla struttura di potere instaurata dopo il 1949 […] Piuttosto che sfidare la struttura di potere esistente, come professato dalla Rivoluzione Culturale, le politiche maoiste finirono per essere uno strumento nella lotta per la conquista del potere all’interno della struttura esistente, una competizione che la Rivoluzione Culturale contribuì in gran parte a scatenare. (23)»

Malgrado l’opinione secondo cui Mao si oppose alla burocrazia di partito sia certamente legittima, la sua visione alternativa delle campagne di massa controllate ideologicamente dall’alto sembra seriamente contraddire l’idea della decentralizzazione e della democrazia partecipativa. Il ruolo dello Stato è cruciale in questo caso: furono proprio la posizione di Mao come presidente, il suo controllo sull’Esercito Popolare di Liberazione, il suo accesso e la manipolazione dei mezzi d’informazione che gli permisero di manovrare la Rivoluzione Culturale.

A dispetto della condanna maoista della burocrazia di partito, l’apparato statale non venne mai sfidato e il suo potere coercitivo, così come l’ardente nazionalismo, rimasero una caratteristica integrante della Rivoluzione Culturale. Perciò il maoismo, pur distinguendosi in una certa misura dal modello sovietico, rimase nella pratica autoritario sotto molti aspetti, in particolar modo riguardo la fiducia nel controllo ideologico e nel potere coercitivo dello Stato.

Per questi motivi, il maoismo come alternativa cinese è molto problematico. La maggior parte dei neo-maoisti della Nuova Sinistra ha ammesso il generale fallimento della Rivoluzione Culturale, ma desiderano ancora vendicare il maoismo sulla base dei suoi fini dichiarati (24).

Strategia

Oggi questi scopi come possono contribuire ad un’alternativa cinese se i mezzi per raggiungerli si sono rivelati fuorvianti in passato? Gli esponenti della Nuova Sinistra generalmente tendono a rimanere silenti sul tema della strategia.

Persone come Wang Hui e Cui Zhiyuan pur avendo nutrito delle riserve nei confronti dello Stato, non hanno suggerito alcuna altenativa ad un modello di cambiamento supportato dall’apparato statale, che agisca cioè dall’alto al basso.

Liberali e neo-liberali, a prescindere dalla loro retorica, propongono avidamente riforme di mercato guidate dallo Stato e protezione statale delle sfere private. Perché allora il dibattito politico cinese manca di serie voci critiche verso lo Stato? Una ragione è sicuramente dovuta al controllo statale sui media, sulle agenzie editoriali e all’intolleranza sfacciata nei confronti dei dissidenti. Un’altra ragione potrebbe avere a che fare con l’eredità di una Cina divisa e la sensazione della vulnerabilità nazionale che è percepita come foriera di uno stato debole. Una terza ragione nasce invece dal ruolo ambiguo dello Stato, che è sia mitigatore che promotore del capitalismo. Indubbiamnete è quest’ultimo fenomeno a costituire un grande ostacolo per la creazione di una vera alternativa cinese.

Data la continua crescita del PIL cinese ad un tasso stupefacente (mentre il resto del mondo langue nella recessione), dovremmo bene ricordare a noi stessi che la probabilità che avvengano cambiamenti radicali è assolutamente minima.

Nessuna significante alternativa sarà implementata dall’alto verso il basso; né ci sarà qualsiasi grande sfida allo status quo finché la crescita economica continuerà. Nonostante gli esponenti cinesi della Nuova Sinistra abbiano conseguito alcuni piccoli successi nel distinguere la posizione della “sinistra” da quella del Partito Comunista Cinese, nessuna delle loro idee è stata articolata in formali richieste politiche. Con l’eccezione del supporto di alcune ONG e gruppi volontari di studenti, la Nuova Sinistra rimane nella sua natura interamente accademica.

Qualunque siano le opinioni sull’idea di “alternativa cinese” e sui vari problemi che la circondano, pensare che una qualsiasi alternativa sia possibile senza una base politica ben radicata è pura fantasia. In tutta onestà, ad ogni modo, senza libertà di parola, di stampa e di associazione, il supporto per un qualsiasi movimento sociale indipendente non sarà facilmente di prossima venuta.

Il culmine dell’ironia è che il Partito Comunista Cinese ricopre oggi un ruolo importante nello sfruttamento capitalista dei contadini e della classe dei lavoratori. Il PCC utilizza il potere dello Stato (sia locale che centrale) per mantenere i salari bassi, condizioni di lavoro spaventose e per schiacchiare il dissenso. Allo stesso tempo è in questa maniera che lo Stato ha prevenuto la completa privatizzazione dell’economia (ed in particolare, forse, la privatizzazione della terra). Questa contraddizione rappresenta il maggior ostacolo per la Nuova Sinistra cinese.

Per essere onesti nel loro tentativo di rompere con il PCC e con la vecchia “sinistra” stalinista, sarebbe d’obbligo una completa rivalutazione del ruolo dello Stato come supporto allo sfruttamento capitalista. Questo procedimento sarebbe necessario non solo in rapporto al post-maoismo, ma anche allo stesso periodo maoista. Se intellettuali come Wang Hui, Cui Zhiyuan e Gan Yang hanno iniziato a muoversi in questa direzione, esitano tuttavia a dare alle loro affermazioni delle logiche conclusioni. Inoltre, le loro idee sono state largamente confinate agli ambienti accademici ed al dibattito politico.

Dato il ruolo sempre più importante della Cina nell’economia mondiale, la sinistra cinese dovrebbe assolutamente prendere le distanze dal dogmatismo, dal nazionalismo e dall’autoritarismo che l’hanno caratterizzata in passato. Solo dopo si potrà cominciare a pensare alle alternative.

NOTE:
16
Meisner, Maurice, The Deng Xiaoping Era: An Inquiry into the Fate of Chinese Socialism, 1978-1994. New York: Hill and Wang, 1996, pp. 479-480.

17
Hurst, William, The Chinese Worker after Socialism, New York: Cambridge University Press, 2009, pp. 28-29.

18
Cui, Zhiyuan, “Ruhe renshi jinri zhongguo: ‘xiaokang’ shehui jiedu” (Come capire la Cina contemporanea: analisi della società del benessere), Dushu (Leggere), no. 4, March, 2004.

19
Day, Alexander, The Return of the Peasant: History, Politics, and the Peasantry in Postsocialist China (tesi di dottorato), University of California Santa Cruz, 2007, p. 86.

20
Mao, Tsetung, A Critique of Soviet Economics (traduzione dal cinese a cura di Moss Roberts), Monthly Review Press, 1977.

21
 Li, Minqi, The Rise of China and the Demise of the Capitalist World Economy, Monthly Review Press, 2008, pp. 24-66; Dirlik, Healy, Knight (a cura di), Critical Perspectives on Mao Zedong’s Thought, Humanities Press International, 1997.

22
Dirlik, Arif, “Revolutions in History and Memory: The Politics of the Cultural Revolution in Historical Perspective” in Postmodernity’s Histories: The Past as Legacy and Project (19-61), Rowman & Littlefield Publishers Inc., 2000, pp. 32, 41.

23
Ibid., pp. 38-39.