Un’interpretazione della “nuova sinistra” cinese (parte prima)

In by Simone

Spesso alla categorie politiche di “destra” e “sinistra” in Cina vengono applicate nozioni occidentali. In realtà i due termini si cospargono di storia più o meno recente del paese, finendo per assumere nel proprio significato anche polemiche e dibattiti in corso. Per contribuire ad una maggiore comprensione della riflessione politica contemporanea cinese, proponiamo la traduzione di un articolo degli amici di Chinastudygroup.net al riguardo, diviso in due parti (la seconda verrà pubblicata domani, venerdì 19 agosto).
Buona lettura!

Introduzione
In un paese dove per più di sessant’anni il Partito Comunista ha guidato le politiche della “ala sinistra”, il dissenso è spesso stato ricondotto alla “destra” o ritenuto “controrivoluzionario”. Di conseguenza, molti dissidenti e parte della popolazione hanno inteso il termine “ala destra” con implicazioni anti-autoritarie o progressiste. A complicare il quadro, a partire dal 1978 lo stesso Partito Comunista Cinese (PCC) si è avvicinato sempre di più alla destra, pur rivendicando ancora la propria natura socialista. Tutto ciò ha contribuito allo sviluppo di un ambiente politico molto strano nella Cina continentale.

Da un lato i liberali cinesi impiegano la retorica dei diritti individuali, della democrazia parlamentare e del capitalismo del libero mercato in opposizione allo Stato; contemporaneamente essi mantengono un aperto supporto alla spinta del PCC verso la “liberalizzazione” ed al proseguimento delle riforme di mercato.

Al contrario, la “Nuova Sinistra” (New Left) si è impegnata nella difesa di molti aspetti del sistema maoista precedente al 1978 e di ciò che rimane del controllo statale dell’economia, opponendosi allo stesso tempo alle politiche di mercato guidate dallo Stato. Con le dovute eccezioni, le due parti del panorama politico condividono il tacito o esplicito supporto al PCC. Questo bizarro fenomeno è correlato alla natura peculiare dello stato cinese. Una chiara comprensione della natura dello Stato è dunque indispensabile affinché la “sinistra” cinese possa cercare di allontanarsi sia dal suo passato autoritario che dalla sua attuale traiettoria capitalista.

Sinistra, destra, radicali, conservatori
In Cina i termini “sinistra” e “destra” o “radicale” e “conservatore” suscitano nell’immaginario popolare associazioni piuttosto diverse rispetto a quelle a cui siamo soliti pensare in Occidente. Mentre nella maggior parte dei paesi capitalisti la “sinistra” e la “destra” sono compresi per lo più in termini economici, in Cina questi concetti sono profondamente vincolati all’interno di una struttura definibile intorno allo Stato, al PCC ed al nazionalismo. Di conseguenza, il dibattito politico cinese tende a presupporre una rigida dicotomia tra il socialismo di stato dell’“ala sinistra” e la democrazia liberale e capitalista dell’“ala destra”. Le denominazioni “radicale” e “conservatore” risultano ugualmente problematiche, poiché non sono legate ad alcun criterio oggettivo e si riferiscono semplicemente al grado di cambiamento che un singolo intende apportare allo status quo.

In Cina, le due espressioni sono diventate particolarmente ambigue a partire dagli anni ottanta, quando gli ideologi del PCC iniziarono a presentare il maoismo come un “progetto conservatore” ed il neo-liberismo come la liberazione “radicale” delle forze produttive (1). Malgrado ci siano stati dei tentativi da parte di alcuni intellettuali della “Nuova Sinistra” di staccarsi da questo semplicismo e da questa distorsione per delineare uno scenario politico cinese più sfumato, tali sforzi hanno fallito almeno sotto due punti di vista.

In prima analisi questi intellettuali non sono riusciti a districare i dibattiti politici interni all’“ala sinistra” cinese da un’eccessiva identificazione nello Stato. Inoltre, va considerato che qualsiasi successo sia stato raggiunto in ambito accademico, non è riuscito a tradursi in un’azione politica concreta.

L’espressione “Nuova Sinistra” è stata adottata originariamente dai liberali cinesi per descrivere, in senso peggiorativo, un gruppo di intellettuali emerso durante gli anni novanta in opposizione alle riforme di mercato. Con il ripudio del “radicalismo”, che in Cina prese piede dopo l’ascesa al potere nel 1978 di Deng Xiaoping, la designazione “di sinistra” è stata associata alla militarizzazione, al controllo ideologico, all’isolamento nazionale ed allo stretto egualitarismo.

Per via di queste associazioni ostili, la maggioranza degli intellettuali all’interno della “Nuova Sinistra” respinge questa etichetta, che però è ancora utilizzata per mancanza di termini più adeguati. Ad ogni modo, a prescindere dai connotati negativi, il termine è stato contestato anche su basi ideologiche da studiosi come Wang Hui.

Quest’ultimo vede la netta dicotomia tra liberali e Nuova Sinistra come una creazione dei neo-liberali cinesi, determinati ad appropriarsi del liberalismo come fosse una loro prerogativa. Wang insiste sul fatto che in Cina i “liberali” si dividono attualmente in due categorie: la prima è quella dei liberali socialmente progressisti (che includerebbero i membri della Nuova Sinistra); la seconda è quella dei neo-liberali e dei neo-conservatori (2).
Una simile osservazione è stata fatta da Zhang Xudong, che ha indicato come «in Cina un fautore delle politiche sociali e dell’economia orientata verso il “New Deal” è stato considerato un “liberale” negli anni ottanta ed un membro della “Nuova Sinistra” alla fine del secolo (3).»

Questo ha spinto alcuni ad accogliere la definizione di “sinistra liberale” (zìyóu zuŏ pài), con lo scopo di evidenziare la continuità del gruppo con i sostenitori del “socialismo democratico” e del “marxismo umanistico” degli anni ottanta (4). Mentre questo entusiasmo per il liberalismo può risultare rassicurante ad un pubblico cinese più conservatore, lascia un radicale non-cinese piuttosto scoraggiato.

Secondo tutte le descrizioni, la Nuova Sinistra non detiene né sembra ambire ad una prospettiva ideologica unitaria. La sua apparizione deve essere contestualizzata sullo sfondo della caduta dell’Unione Sovietica e dell’abbagliante terapia d’urto neo-liberale impressa nell’Est Europa; essa ha preso forma all’interno dei processi di radicale ristrutturazione delle imprese statali e di smantellamento del sistema di previdenza sociale avviati in Cina dal 1993.

Negli anni novanta, allorché lo stato cinese passò da posizioni autoritarie di “sinistra” a posizioni radicali di “destra” nel tentativo di emulare il successo delle tigri asiatiche, i liberali cinesi iniziarono a rivendicare la crescita della “liberalizzazione” ed un ulteriore avvicinamento alla “destra”. È stata questa aggiuntiva transizione all’interno della dottrina liberale a causare una rottura, suggellando la nascita della Nuova Sinistra. In un certo senso sin da allora gli orientamenti teorici della Nuova Sinistra si sono sviluppati in opposizione alla svolta neo-liberale dell’intellighenzia cinese e del mondo in generale.

Molti nella Nuova Sinistra si collocano all’interno della tradizione liberale, ma in realtà sono stati fortemente influenzati dal marxismo (sebbene alcuni si identifichino in entrambe le linee di pensiero). Molti sostengono lo sviluppo di una nuova forma di socialismo di mercato che mescolerebbe aspetti sia del capitalismo che del socialismo.

La Nuova Sinistra riesce perciò a sfuggire a facili definizioni. In parte ciò è frutto della natura polivalente del suo impegno ideologico, ma principalmente dipende dal fatto che essa mette insieme aspetti sia del liberalismo occidentale che del marxismo da un lato ed elementi del maoismo e del confucianesimo dall’altro.

In realtà uno dei principali punti di contesa con i liberali cinesi riguarda l’adozione indiscussa di valori e di istituzioni storicamente appartenenti all’Occidente. Questa tendenza al rifiuto di valori universali e del percorso lineare di sviluppo offerto dalla modernità distingue la Nuova Sinistra cinese non solo dai suoi oppositori liberali, ma anche dai leninisti e dall’ortodossia socialdemocratica.

Alcuni hanno notato che simili inclinazioni post-moderne posseggono una certa continuità con il maoismo (5). Qualunque sia la realtà, il desiderio di muovere oltre i semplici binari della tradizione e della modernità, del capitalismo e del socialismo, della democrazia e della dittatura ha ricevuto un considerevole supporto tra diversi intellettuali collegati alla Nuova Sinistra, spingendo alcuni a sperare persino nella creazione di una “alternativa cinese”.

Wang Hui
Wang Hui è forse lo studioso più conosciuto tra quelli associati alla Nuova Sinistra. Ha pubblicato ampiamente sia in lingua cinese che in lingua inglese su questioni che ruotano attorno alla critica letteraria, alla storia del pensiero cinese ed alla politica contemporanea. Diversamente da altre preminenti figure della Nuova Sinistra, Wang è stato educato in Cina e non negli Stati Uniti (sebbene abbia trascorso molto tempo all’estero). Oggi Wang è di gran lunga uno dei più originali pensatori in Cina. Sia il suo lavoro di critica sia quello di storia del pensiero sono fortemente debitori delle teorie post-coloniali e del “sistema-mondo”.

La sua unicità è riflessa nell’aspirazione, di origine taoista, a trascendere le opposizioni binarie, nonché nel desiderio, ispirato a Foucault, di recuperare le “storie sovvertite” in quanto strumento di critica costante del presente. È attraverso questo progetto di recupero della storia perduta che Wang ha provato ad avvicinare la questione dell’alternativa cinese. In contrasto con Arrighi ed altri, che hanno trattato la stessa questione (6), Wang Hui non ritiene l’attuale via cinese per lo sviluppo rappresentativa di un’alternativa di valore.

Inoltre, egli ha evitato di formulare una seria proposta riguardo alle possibili sembianze di un’alternativa cinese. Al contrario, Wang si è fatto carico del più modesto compito di delineare una storia dei tentativi da parte degli intellettuali cinesi di criticare, resistere e trascendere la modernità globale capitalista. In principio, Wang ha assunto visibilità nel 1997, per un articolo che scrisse per Tianya (Le colonne d’Ercole), intitolato “Lo stato ideologico e la questione della modernità nella Cina contemporanea” (7).

Da allora, egli ha publicato una storia del pensiero in quattro volumi, a cui ha dato il titolo di “Il sorgere del pensiero moderno cinese” (8). In quest’ultimo lavoro Wang interpreta la modernità come radicata in alcune contraddizioni fondamentali. Da un lato, storicamente, la Cina ha riconosciuto la necessità di immettersi e di competere all’interno del sistema moderno degli stati-nazione. D’altro canto, il processo di modernizzazione cinese è basato sulla resistenza ad alcuni aspetti della modernità e si è opposto all’imperialismo occidentale (9).

Wang considera il progetto del “socialismo” cinese come un tentativo fallito di costruire un’alternativa cinese alla modernità capitalista. Egli fa risalire questi tentativi non solo alla fondazione del Partito Comunista Cinese, ma soprattutto ai primi incontri con il socialismo nella tarda epoca Qing (1644-1911) e persino alle critiche neo-confuciane durante i drammatici cambiamenti attraversati dalla Cina in epoca Song (960-1278). In questo senso, “Il sorgere del pensiero moderno cinese” è una genealogia di “alternative alla modernità” così come concettualizzate dagli intellettuali cinesi.

L’interpretazione di Wang Hui della modernità cinese come una sorta di “anti-modernità” è strettamente connessa alla questione dello stato-nazione. Secondo Wang, la nazione cinese fu edificata sulla contraddizione tra un “impero” multietnico, che potenzialmente avrebbe potuto trascendere il sistema degli stati-nazione, ed il nazionalismo han, radicato nell’accettazione di un posto per la Cina all’interno del sistema (10).

Wang, perciò, presenta una decostruzione ed una critica sottile del nazionalismo cinese e dello Stato, che descrive appropriatamente come la forma politica naturale della modernità capitalista. Eppure, al di là del sospetto per lo stato-nazione, egli sembra vacillare di fronte alla prospettiva di rifiutare la logica strutturale alla base dello Stato. Malgrado solo di rado egli sia esplicito nelle sue vedute politiche, questa ambiguità è pressoché evidente in tutta la sua produzione recente.

L’ultimo lavoro di Wang è focalizzato sul problema della “de-politicizzazione” e della “burocratizzazione” delle politiche di partito (11). Egli argomenta in modo convincente che sia la dittatura mono-partitica che le democrazie rappresentative multi-partitiche hanno piegato la testa di fronte agli interessi del capitalismo globale; che le lotte popolari per eliminare la disparità di classe sono state rimpiazzate dal compromesso e dalla burocratizzazione; e che, infine, la società è divenuta “de-politicizzata”.

Wang considera alcuni aspetti della Rivoluzione Culturale (1966-1976), come volti alla correzione di queste tendenze alla “burocratizzazione” all’interno del PCC. Utilizzando anche in questo caso il passato per criticare il presente, evidenzia il bisogno urgente per una democrazia “sia politica sia economica” in Cina.

Indica la possibilità della partecipazione di massa nella politica come rimedio di fronte alla potenziale “burocratizzazione” e “de-politicizzazione” dei partiti politici. Questo richiamo alla democrazia partecipativa (per non parlare del suo atteggiamento scettico di fronte allo stato cinese) consente a Wang di sfidare le rivendicazioni liberali riguardo il supposto anti-autoritarismo del libero mercato. Inoltre lo rende uno dei cinesi anti-autoritari nello scenario politico della “sinistra”. Ma cosa significa esattamente democrazia “sia politica sia economica”? E come la Cina sta procedendo verso di essa?

Cui Zhiyuan
Wang Hui non è l’unica voce della Nuova Sinistra a porre la questione di un’alternativa cinese. Anche la maggior parte dei lavori di Cui Zhiyuan si concentra su questa tematica. Ad ogni modo, diversamente da Wang Hui, Cui è meno focalizzato su problematiche sociologiche astratte e maggiormente orientato sull’analisi di istituzioni concrete nella sua critica alle riforme di mercato.

Laureato in scienze politiche all’Università di Chicago, alla metà degli anni novanta Cui fu uno dei primi “liberali” a rompere con la svolta verso il neo-liberalismo. Le reazioni sollevate da un suo articolo del 1994, “Innovazione istituzionale e la seconda liberazione del pensiero” (12), portarono alla comparsa dell’espressione “Nuova Sinistra” nella terminologia politica, come un’etichetta denigratoria indirizzata a Cui dai suoi critici.

Laddove Wang Hui concepisce la sua discussione su un’alternativa cinese maggiormente in termini storici, Cui Zhiyuan indica esempi specifici, come l’industrializzazione rurale, con lo scopo di esprimere quest’alternativa potenziale in termini concreti. Alla fine degli anni ottanta, l’industria rurale cinese era cresciuta al punto da offrire impiego ad un quarto della forza lavoro rurale e contribuire alla metà del prodotto agricolo nazionale (13).

Le aziende rurali, o Imprese Comunali e di Villaggio (ICV), consistevano in stabilimenti locali, mulini e fonderie destinati principalmente alla produzione per l’industria leggera. Potevano essere vere e proprie cooperative di villaggio, iniziative imprenditoriali private o ramificazioni dei governi locali. Tuttavia, all’inizio degli anni novanta, la crescita dell’industria rurale iniziò a ristagnare e la vasta popolazione contadina cinese fu sempre più vista come un intralcio allo sviluppo; la richiesta per un’ulteriore “mercatizzazione“ ed urbanizzazione iniziò così ad oscurare il successo passato delle ICV.

Non appena gli ambienti accademici iniziarono a rivoltarsi contro le ICV, Cui Zhiyuan, assieme ad un altro noto “liberale di sinistra”, Gan Yang, prese a difendere la piccola industria rurale e collettivista, non solo perché economicamente pratiche (in rapporto all’assorbimento di manodopera e all’innalzamento delle entrate), ma anche in quanto possibile alternativa al modello fordista di industria capitalista su vasta scala.

Per Cui le ICV erano un mezzo per evitare la dipendenza dei villaggi dai prodotti industriali delle città, così come un positivo bilanciere di fronte all’aumento della disparità tra campagne e città. Cui si collegò provocatoriamente all’eredità del Grande Balzo in Avanti (1958-1960) e dei tentativi maoisti diretti all’autosufficienza locale. Molte di queste argomentazioni vennero in seguito incorporate nella rappresentazione di Wang Hui della modernità cinese come un’anti-modernità.

In tal modo l’industrializzazione rurale è stata concepita sia da Cui che da Wang come un momento fondamentale nel tentativo cinese di cercare e persistere in un’alternativa al modello capitalista di sviluppo industriale. Cui Zhiyuan ha anche trattato in parte le prospettive ed il significato della democrazia in Cina.

Come Wang Hui, Cui è un sostenitore della “democrazia politica ed economica” e probabilmente l’esponente della “Nuova Sinistra” con maggiori inclinazioni liberali. Per Cui la democrazia non è solo questione di parlamento ed elezioni nazionali, ma principalmente di «portare la politica nella sfera economica.» In diversi articoli scritti negli ultimi quindici anni, egli ha tentato di portare alla luce diversi esempi concreti di istituzioni “autoctone” che potrebbero fungere da base per procedere alle elezioni locali nei villaggi e alla democrazia economica in Cina (14).

Uno degli aspetti che distingue l’approccio di Cui dagli altri è la sua preferenza ad esaminare aspetti del passato e del presente cinese generalmente rappresentati come “arretrati” o “anacronistici” all’interno del discorso liberale, per poi dimostrare le somiglianze con le istituzioni attualmente in vigore in Giappone e in Occidente. Così facendo, egli si adopera, come Wang Hui, a spezzare la presunta opposizione binaria tra capitalismo e socialismo. Inoltre intende evidenziare come determinate strutture istituzionali “collettiviste” possano essere efficienti, sia eticamente che praticamente, e come le nazioni capitaliste moderne abbiano adottato queste stesse istituzioni a loro vantaggio.

L’articolo che Cui ha scritto nel 1996, “La costituzione Angang e il post-fordismo”, è un buon esempio di quanto sintetizzato in precedenza (15). In questo lavoro Cui paragona la clausola sulla “gestione del lavoratore”, contenuta nella “Costituzione Angang” del complesso cinese di ferro e acciaio ad Anshan (1960), con le tendenze contemporanee nell’industria automobilistica americana e giapponese.

Il suo punto di vista è che alcune istituzioni del periodo maoista sono interamente compatibili con i più avanzati metodi organizzativi e con le domande dell’industria moderna. A dispetto delle implicazioni radicali di molte delle sue proposte, gli scritti di Cui sulla democrazia economica evidenziano generalmente una simpatia per i modelli di divisione della gestione e del profitto, che riducono la tensione tra lavoro e capitale. Questo approccio di compromesso fa tornare in mente la sua visione di un’economia “mista” cinese, che fonde elementi di socialismo e capitalismo.

Mentre Cui va molto più avanti di Wang nel cercare di articolare la sostanza dell’alternativa cinese, rimane comunque poco chiaro se egli ritenga che la Cina stia attivamente perseguendo questa alternativa o se invece abbia bisogno di un riorientamento radicale. Agli inizi degli anni novanta, quando la Nuova Sinistra stava prendendo forma, l’integrazione globale della Cina nel capitalismo mondiale era appena decollata. Di conseguenza nuove sperimentazioni e riforme sembravano ancora possibili su vasta scala. Queste speranze costituivano le basi della chiamata di Cui alla «seconda liberazione del pensiero» del 1994, ma dopo un decennio, questo atteggiamento ottimista si sarebbe rivelato inattendibile di fronte alle realtà competitiva del mercato mondiale capitalista.

Qui la seconda parte

NOTE:
1
Zhang, Xudong, “The Making of the Post-Tiananmen Intellectual Field: A Critical Overview” in Zhang, Xudong (a cura di), Whither China? Intellectual Politics in Contemporary China (1-75), Durham: Duke University, Press, 2001, p. 19.
2
Wang, Hui, “Zhongguo ‘xinziyouzhuyi’ de lishi genyuan: zailun Zhongguo dalu de sixiang zhuangkuang yu xiandaixing wenti” (Le radici storiche del ‘Neo-liberalismo’ cinese: Una ridiscussione della condizione ideologica e della questione della modernità nella Cina continentale), in Wang, Hui, Quzhengzhihua de zhengzhi: duan ershi shiji de zhongjie yu jiushi niandai (Politica ‘de-politicizzata’: fine del secolo breve e anni novanta) (98-160), Beijing: Shenghuo dushu xinzhi sanlian shudian, 2008, pp. 143-145

3
 Zhang, Xudong, “The Making of the Post-Tiananmen Intellectual Field: A Critical Overview” in Zhang, Xudong (a cura di), Whither China? Intellectual Politics in Contemporary China (1-75), Durham: Duke University Press, 2001, p. 16.

4
 Gan, Yang, “Zhongguo ziyouzuopai de youlai” (Origine della sinistra liberale cinese) in Gong, Yang (a cura di), Sichao: Zhongguo ‘xinzuopai’ jiqi yingxiang (Trend ideologici: la ‘Nuova Sinistra’ cinese e la sua influenza) (110-120), Beijing: Zhongguo shehui kexue chubanshe, 2003.

5
 Dirlik, Arif, “Modernism and Antimodernism in Mao Zedong’s Marxism” in Dirlik, Healy, Knight (a cura di) Critical Perspectives in Mao Zedong’s Thought (59-83), Humanities Press International, 1997.

6
 Arrighi, Giovanni, Adam Smith in Beijing: Lineages of the Twenty-First Century, Verso, 2007.

7
 Wang, Hui, “Contemporary China’s Ideological State and Question of Modernity” in Zhang, Xudong (a cura di), Whither China? Intellectual Politics in Contemporary China (161-190). Durham: Duke University Press, 2001.

8
 Wang, Hui, Xiandai Zhongguo sixiang de xingqi (Il sorgere del pensiero moderno cinese), Beijing: Shenghuo Dushu Xinzhi Sanlian Shudian, 2008.
Si segnala che è disponibile l’ottima traduzione in italiano dell’introduzione dell’imponente opera di Wang Hui, curata dalla ricercatrice Gaia Perini e pubblicata con il titolo: Impero o Stato-Nazione? La modernità intellettuale in Cina, Milano: Academia Universa Press, 2009. N.d.T.

9
 Murthy, Viren, “Modernity against Modernity: Wang Hui’s Critical History of Chinese Thought”, Modern Intellectual History, Vol. 30, 1 (2006): 158-159.

10
 Ibid., pp. 156-158.

11
 Wang , Hui, “Quzhengzhihua de zhengzhi, baquan de duochong guocheng yu liushi niandai de xiaoshi” (Politica ‘de-politicizzata’, processo di moltiplicazione dell’egemonia e dissoluzione degli anni sessanta) in Wang, Hui, Quzhengzhihua de zhengzhi: duan ershi shiji de zhongjie yu jiushi niandai (Politica ‘de-politicizzata’: fine del secolo breve e anni novanta) (1-57), Beijing: Shenghuo dushu xinzhi sanlian shudian, 2008.

12
 Cui, Zhiyuan, “Zhidu chuangxin yu di’erci sixiang jiefang” (L’innovazione istituzionale e la seconda liberazione del pensiero), Ershiyi shiji (Ventunesimo secolo), no. 24, agosto 1994.

13
 Meisner, Maurice, The Deng Xiaoping Era: An Inquiry into the Fate of Chinese Socialism, 1978-1994. New York: Hill and Wang, 1996, p. 232.

14
 Cui, Zhiyuan, “Wither China? The Discourse on Property Rights and Reform in China” in Zhang, Xudong (a cura di), Whither China? Intellectual Politics in Contemporary China (103-122). Durham: Duke University Press, 2001.

15
 Cui, Zhiyuan, “An’gang xianfa yu houfutezhuyi” (La Costituzione Angang e il post-fordismo) in Gong, Yang (a cura di), Sichao: Zhongguo ‘xin zuopai’ jiqi yingxiang (Trend ideologici: la ‘Nuova Sinistra’ cinese e la sua influenza) (224-226), Beijing: Zhongguo shehui kexue chubanshe, 2003.

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