La prossima settimana la Cina organizzerà la prima conferenza di pace per il Corno d’Africa, cimentandosi con un settore finora volutamente aggirato: quello della sicurezza. Come conciliare l’iniziativa con lo storico principio della non interferenza negli affari degli altri paesi?
Tenete bene a mente una data: 20 giugno. E’ quando la Cina organizzerà la prima conferenza di pace per il Corno d’Africa, cimentandosi con un settore finora volutamente aggirato: quello della sicurezza. Secondo Sudan News Agency, che per prima ha riportato la notizia, sarà la capitale etiope Addis Abeba a ospitare l’evento. Una location dal forte simbolismo, dove – dieci anni fa esatti – capitali e soft power cinesi si sono concretizzati nella costruzione del quartier generale dell’Unione africana.
Lo scopo dell’insolita iniziativa lo ha spiegato l’ambasciatore cinese a Khartoum, Ma Xinmin: “rafforzare la stabilità, lo sviluppo e il buon governo in questa importante regione”. Importante, per il gigante asiatico, il Corno d’Africa lo è innanzitutto da un punto di vista economico. Secondo la società di ricerca Deloitte, nel 2020, la Cina era coinvolta in circa la metà dei progetti infrastrutturali in costruzione nell’Africa orientale. Investimenti cinesi sono massicciamente presenti nel tessile e nel farmaceutico etiope, così come nella Grande Diga della Rinascita, pomo della discordia tra Egitto, Sudan ed Etiopia.
Segnali di un maggiore attivismo di Pechino nell’area – considerata rampa di lancio verso l’Oceano Indiano – erano emersi a gennaio, quando durante il consueto tour africano di inizio anno il ministro degli Esteri cinese vagheggiò la realizzazione di una rete ferroviaria regionale: un piano – che se confermato – arriverebbe a coinvolgere Kenya, Uganda, Ruanda, Sud Sudan, Repubblica Democratica, Etiopia, Eritrea e Gibuti.
Tutelare la stabilità del quadrante è diventata pertanto una priorità improrogabile per il gigante asiatico e le sue aziende. Soprattutto dopo l’ultimo colpo di stato in Sudan, i prolungati scontri nel Tigray e la recrudescenza del fondamentalismo jihadista in Somalia e Kenya. Il tutto alla luce del disimpegno francese dal Sahel. In questo contesto si inseriscono la conferenza di pace e la nomina di un primo inviato cinese per il Corno d’Africa. Iniziative per nulla scontate.
Mentre in passato la Cina è stata accusata di agire dietro le quinte, questa è la prima volta che Pechino dichiara urbi e orbi la volontà di assumere un ruolo più proattivo nel mantenimento della sicurezza africana. La nuova postura non solo pare contraddire il primo comandamento della politica estera cinese: quello ereditato da Mao della non ingerenza negli affari interni degli altri paesi. Sembra persino minare la credibilità delle critiche mosse da Pechino contro l’invasività americana nel continente. Auspicando una risoluzione dei problemi locali attraverso “soluzioni africane”, la Cina si è sempre presentata come un outsider discreto e responsabile in opposizione all’interventismo degli States. Come conciliare la tradizione diplomatica con le nuove contingenze internazionali, il principio della non interferenza con la realpolitik?
A guardar meglio in realtà, anche con la stella sul petto, Pechino ambisce a proporre un’alternativa “virtuosa” a Stati uniti e Russia. Una “pax sinica” così come tratteggiata nella New Global Security Initiative, concetto introdotto di recente che, attingendo alla saggezza dei classici filosofici, promuove la stabilità come prerequisito dello sviluppo economico. Punta a prevenire guerre e conflitti attraverso “il rispetto reciproco”, il “dialogo senza confronto”, i “partenariati senza le alleanze”, le sinergie “win-win” anziché i “giochi a somma zero”. Nulla a che vedere con la “war on terror” americana e le operazioni mercenarie di Mosca. Un riferimento più all’esperienza di peacekeeping accumulata per decenni nel quadro delle Nazioni unite. “La Cina manderà [nel continente] ingegneri e studenti. Noi non inviamo armi”, chiariva a marzo l’inviato speciale per il Corno d’Africa, Xue Bing.
D’altronde, come ci spiegava tempo fa Andrea Ghiselli della Fudan University, quando la Cina parla di “security cooperation” intende perlopiù la fornitura di addestramento ed equipaggiamento alle forze armate o alla polizia locali. Non l’intervento diretto sul campo. Se mai Pechino deciderà però di passare da una visione “soft” a una più “hard”, l’Africa è pole position: qui, infatti, la Cina conduce dai primi anni 2000 missioni antipirateria e proprio nel Corno d’Africa, a Gibuti, ha istituito la sua prima e (per ora) unica base militare all’estero. Nell’ultimo anno l’establishment americano ha sollevato i timori per la costruzione di un nuovo avamposto della marina cinese sulla costa opposta, nel golfo di Guinea.
Insomma, il continente potrebbe rivelarsi un primo banco di prova per una visione securitaria che Pechino ha tutta l’aria di voler estendere ovunque abbia forti interessi economici. A partire dal Pacifico.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato in forma ridotta su il manifesto]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.