Terry Branstad non ha confermato la notizia uscita sui media americani, ma la sua nomina ad ambasciatore degli Stati uniti in Cina è considerata praticamente scontata.
L’ex governatore dello Iowa, connesso a Trump per tutta la campagna elettorale – il figlio è stato il manager della corsa elettorale proprio in quel decisivo stato – è un «vecchio amico» dell’attuale presidente Xi Jinping. Fu Branstad ad ospitare Xi quando era ancora un funzionario del partito, durante la sua visita proprio in Iowa dove il futuro leader cinese apprese delle tecniche e della gestione degli allevamenti dello stato americano.
E fu ancora Branstad ad ospitare Xi – in nome della vecchia amicizia – quando l’attuale leader poco prima della sua nomina a numero uno si recò negli States nel 2012. Fu proprio Xi che chiese di fare tappa in Iowa per salutare la famiglia Branstad, dando un segnale circa la sua riconoscenza a chi lo aveva ospitato vent’anni prima e aprendo a diverse speculazioni circa il suo futuro atteggiamento «amicale» nei confronti della super potenza americana. Già in quell’occasione Xi tracciò una linea di demarcazione rispetto ai «tecnocrati» che lo avevano preceduto al governo cinese.
Una nomina quella di Branstad che, se confermata, farebbe esultare Pechino (il ministero degli esteri, subito dopo l’annuncio sulle agenzia ha fatto sapere di apprezzare la scelta di Trump) e potrebbe essere anche letta come una sorta di riparazione dopo la telefonata tra Trump e Tsai dei giorni scorsi che tanto aveva infastidito la Cina. A questo proposito, l’incidente non può dichiararsi terminato, neanche con l’eventuale nomina di un ambasciatore molto gradito a Pechino. Ieri la Cina ha intimato alla presidente Tsai di non osare un transito «tecnico» negli Usa durante il suo viaggio in centro America (dove alcuni paesi sono i soli che riconoscono formalmente Taiwan).
E sempre a proposito della controversa telefonata, nuovi particolari emersi renderebbero molto meno innocuo il gesto di Trump. Secondo il New York Times non si sarebbe trattato di una gaffe, bensì di un piano teso da lobbisti e Taiwan per sfruttare l’elezione del nuovo presidente Usa per riallacciare le relazioni. Il lobbista repubblicano Bob Dole – ha scritto il Nyt – avrebbe agito come «agente straniero» per il governo di Taipei coordinandosi anche con i responsabili della campagna e del «transition team» di Trump. Per i suoi servigi avrebbe ricevuto da maggio ad ottobre una somma di 140 mila dollari, secondo quanto emerge da alcuni documenti in mano al Dipartimento di giustizia.
[Pubblicato su il manifesto]