Quaranta chili. È il peso del mattone d’argento che il primo ministro indiano Narendra Modi ha deposto ieri ad Ayodhya, nello stato dell’Uttar Pradesh, dando ufficialmente il via alla realizzazione del Grande Tempio di Ram. Secondo le stime, il luogo di culto dedicato alla divinità hindu sarà ultimato entro tre anni.
Quaranta chili pesanti come un macigno, carichi dell’enorme valore simbolico che circonda la vicenda del tempio di Ram, tra le più determinanti e sanguinose della storia della democrazia indiana.
Alla fine degli anni Ottanta il Bharatiya Janata Party (Bjp) era un partito di destra hindu relegato alla periferia del potere, all’ombra di una supremazia politica irresistibile esercitata dall’Indian National Congress della dinastia Gandhi.
Per iniziativa di L.K. Advani, il Bjp raccolse dalle ceneri della Storia la vicenda della Babri Masjid di Ayodhya, moschea eretta nel sedicesimo secolo durante la reggenza dell’imperatore Babur della dinastia Moghul, di fede musulmana.
Secondo un’interpretazione del poema epico Ramayana abbracciata dalla destra hindu, il terreno dove sorgeva la moschea era esattamente il luogo di nascita del dio Ram. Non solo: prima della moschea, dice senza alcuna prova archeologica una certa destra hindu, esisteva un grande tempio dedicato al dio, demolito dagli «invasori» musulmani per far largo al luogo di culto islamico.
Un’onta che, a scoppio ritardato di qualche secolo, gli hindu erano chiamati a lavare ristabilendo lo stato originario delle cose.
Sotto la guida di Advani, nel 1990 il Bjp e una serie di sigle dell’ultrainduismo organizzarono una carovana lungo tutta l’India settentrionale, chiamando a raccolta i fedeli al grido di «mandir wahin banayenge»: proprio lì costruiremo il tempio.
Nel dicembre del 1992 migliaia di ultrahindu, contravvenendo alle raccomandazioni delle autorità federali di New Delhi, con martelli e picconi rasero al suolo la Babri Masjid, sotto lo sguardo di esponenti del Bjp e dell’ultrainduismo politico riuniti ad Ayodhya per una «cerimonia simbolica» di deposizione della prima pietra del tempio di Ram.
In poche settimane, gli scontri intercomunitari che seguirono la demolizione della Babri Masjid causarono la morte di più di duemila persone in tutto il Paese.
Da Ayodhya in poi, l’odio tra hindu e musulmani diventò la principale fonte di consensi per il Bjp, protagonista di un’ascesa senza precedenti nell’agone politico del subcontinente culminata nel 2014 con la vittoria di Narendra Modi alle elezioni nazionali.
Lo stesso Modi, in fotografie di repertorio riemerse in questi giorni, appare tra i volontari che accolsero L.K. Advani a New Delhi immediatamente dopo la demolizione della Babri Masjid.
La copertina dell’edizione speciale dedicata dal magazine India Today ai fatti di Ayodhya, tornata a circolare sui social network indiani in queste ore, è emblematica, sullo sfondo di ultrahindu che ballano sulle rovine della moschea campeggiano tre parole: «Ayodhya: nation’s shame» (Ayodhya, la vergogna della nazione).
Ieri, neanche trent’anni dopo, in un breve discorso pronunciato a favore di telecamera, Modi ha descritto il tempio di Ram come «uno strumento per unire il Paese». «Nonostante i tentativi di eliminare l’esistenza di Ram», ha proseguito Modi, «egli vive ancora nei nostri cuori ed è alla base della nostra cultura. Ram è dappertutto, Ram appartiene a tutti».
L’India, con quasi 200 milioni di fedeli, è il terzo Paese musulmano al mondo. Nelle violenze che ciclicamente interessano la minoranza musulmana in India – l’ultima, i pogrom nella periferia nord di New Delhi, all’inizio dell’anno – il motto «Jai Shri Ram» (Evviva il dio Ram) risuona tra le fila delle squadracce ultrahindu. È il motto che le vittime musulmane sono obbligate a intonare in ginocchio, minacciate dai bastoni, nelle decine di video diffusi su Youtube a testimonianza delle spedizioni punitive ispirate da una retorica ultrahindu ben rappresentata dai vip invitati alla cerimonia di ieri: Yogi Adityanath, chief minister dell’Uttar Pradesh, monaco hindu ed esponente del Bjp, punto di riferimento dell’estremismo hindu nella regione grazie a una lunga lista di comizi al vetriolo; Mohan Bhagwat, il capo supremo della Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), organizzazione paramilitare ultrahindu considerata la spina dorsale ideologica del Bjp, «braccio armato» dell’estremismo hindu che ha formato numerosi esponenti di primo piano del governo indiano, Modi compreso.
Al netto della retorica ecumenica di Modi, il 5 agosto 2020 segna un punto di non ritorno nel processo di demolizione della «vecchia India» immaginata dal padre della patria Jawaharlal Nehru: una nazione laica, multiculturale, multietnica e multiconfessionale, plasmata sul principio di «unità nella diversità».
Sotto i colpi di un suprematismo hindu teorizzato agli inizi del secolo scorso e politicamente «militarizzato» con la mobilitazione per il tempio di Ram, nel giro di tre decenni il Bjp e le organizzazioni extraparlamentari ultrahindu sono riuscite a imporre una metamorfosi autoritaria, settaria e intollerante nei confronti di minoranze religiose ed etniche francamente impensabile all’inizio degli anni Duemila.
È il trionfo dell’Hindutva, la teoria suprematista hindu che da un secolo punta a fondare un hindu rashtra (nazione hindu), uno Stato degli hindu, governato dagli hindu, per gli hindu, dove a tutte le minoranze saranno tollerate solo come cittadini di serie b.
La supremazia della dottrina ultrahindu di governo oggi appare totale, incontrastabile dall’interno, in assenza di una qualsiasi forma di opposizione in grado di proporre un programma alternativo all’Indian Dream di Modi quantomeno appetibile all’elettorato indiano.
Il Grande Tempio di Ram è una delle due promesse elettorali mantenute dal governo Modi. La seconda, spogliare il Kashmir dell’autonomia e spianare la via all’hinduizzazione dell’unico Stato a maggioranza musulmana, non a caso proprio ieri ha compiuto un anno.
[Pubblicato su il manifesto]