“Essere giornalista in Cina è un po’ rischioso, però hai anche sempre un sacco di cose da scrivere”. Ha scelto di presentarsi con ironia sottile Liu Jianqiang, uno dei più noti reporter investigativi della Cina, invitato il 26 aprile scorso presso la Scuola di giornalismo della Columbia University, nel cuore della Grande Mela. Una vita professionale intensa, dallo sportello di una banca alle colonne del Southern Weekly, il settimanale cinese celebre per le sue inchieste resosi protagonista all’inizio dell’anno di un’accesa protesta contro i meccanismi della censura. Poi nel 2006 la troppa notorietà, amplificata oltre la Muraglia dal Wall Street Journal, gli costò il posto nel giornale del Sud. “E’ un fatto molto sensibile per chi lavora nei media cinesi venire coperti da media stranieri. Il WSJ utilizzò le mie storie per accusare il governo cinese di mettere in atto un giro di vite sul giornalismo investigativo. Ciò fece arrabbiare molto il mio capo. Temeva qualche punizione da parte del governo“, ha spiegato.
La penna di Liu aveva rivelato i molti lati oscuri di Pechino: scandali ed episodi di corruzione a tutti i livelli del Partito, e il business dei casinò in Corea del Nord, alimentato dalla passione dei cinesi per il gioco d’azzardo. “Poi ho scoperto che tutto questo non serviva a niente. Raccontare le malefatte dei funzionari non permette alcun cambiamento perché il governo cinese è ancora molto suscettibile quando si tratta di storie politicamente scomode“. Così nel 2004 decise di cominciare la propria battaglia “verde”, coprendo progetti sensibili avviati da Pechino a discapito di costi ambientali enormi.
Oggi è editor di Chinadialouge, organizzazione no-profit focalizzata sulle tematiche ambientali con sedi a Londra, Pechino e San Francisco. “L’ambiente in Cina non viene considerato politica e per i giornalisti è più facile parlarne. Ma la mia domanda è sempre stata: chi danneggia veramente l’ambiente? Non sei tu o la gente comune. Sono i grandi gruppi d’interesse, governi locali, aziende e corporazioni hanno grande interesse nella massimizzazione dei profitti”, ha spiegato, “molti funzionari locali sono soliti mentire ai leader sui reali rischi ecologici”.
Proprio la parola “mentire” ricorrerà più e più volte nel corso del suo racconto. Negli ultimi anni, grazie allo sforzo congiunto di popolazione, giornalisti investigativi e Ong sono stati evitati -o quantomeno arginati- terribili disastri ambientali. In diversi casi, messo con le spalle al muro, il governo cinese ha preferito fare marcia indietro sospendendo opere colossali, quali la costruzione di una centrale idroelettrica sul corso medio del fiume Jinsha, nella provincia meridionale dello Yunnan.
Il progetto che, oltre a mettere a serio rischio la Gola del Salto della Tigre, uno dei punti paesaggistici più incantevoli della Cina, minacciava le abitazioni di 100mila residenti locali e oltre 13mila ettari di terreni coltivabili, fu arrestato dopo un’agguerrito campagna di protesta durata dal 2004 al 2006. Per il movimento della difesa ambientale cinese certamente uno dei successi più eclatanti dell’ultima decade, nonché un primo sintomo di una nascente “coscienza verde” tra i cittadini.
“E’ molto incoraggiante il fatto che dopo le contestazioni i progetti siano stati interrotti” ha commentato Liu, raccontando come i lavori sul fiume Jinsha fossero stati fortemente voluti dalla China Huaneng Group Corporation, una compagnia idroelettrica gestita niente meno che da Li Xiaopeng, figlio dell’ex premier Li Peng. La costruzione della stazione di Jinanqiao, alla quinta delle otto dighe previste, procedeva illegalmente dal 2002 senza l’approvazione del governo, come avrebbe poi confermato a Liu un funzionario della Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme, il più importante organo di pianificazione economica del Dragone.
Con l’aiuto degli abitanti dei villaggi vicini, il collega di Liu, Chen Gong, riuscì a visitare il sito smarcandosi dai controlli delle guardie impiegate dalla società responsabile per il progetto. “Il nostro articolo fu pubblicato sulla prima pagina del Southern Weekly il 29 settembre 2004 con il titolo di ‘Emergenza nella Gola del Salto della Tigre’. Dopo il nostro report anche altri media cinesi e internazionali cominciarono ad interessarsi alla questione. Il leader locale Ge Quanxiao fece centinaia di fotocopie del pezzo e le distribuì tra i cittadini”.
Nel giro di pochi giorni la storia finì sulla scrivania dell’allora premier Wen Jiabao, il quale ordinò di fermare il progetto e avviare delle ricerche approfondite sull’impatto ambientale. Da quel momento, nonostante tutto, Pechino ha continuato a conservare una posizione ambigua sulla sorte dell’area. “Quando ci viene chiesto di commentare lo sviluppo della Gola del Salto della Tigre, di solito ci atteniamo alle dichiarazioni secondo le quali i lavori sono stati messi in attesa e non ci resta che aspettare e vedere come andrà a finire” aveva dichiarato lo scorso agosto Wang Shucheng, ministro delle Risorse Idriche dal 1998 al 2007.
Le rassicurazioni del governo centrale stridono con la costante pressione esercitata dalle autorità locali e dalle società coinvolte per la ripresa del progetto, osteggiato il 19 marzo 2006 da 10mila contadini riunitisi per protestare. Nessuno di loro era mai stato avvertito del trasferimento forzoso al quale sarebbero stati sottoposti nel caso in cui la diga fosse stata approvata. E’ dal 2003, l’annus horribilis della Sars e dell’emergere delle proteste contro la costruzione di 13 dighe sul fiume Nu, nella Cina occidentale, che Pechino ha cominciato a dover fare i conti con un’opinione pubblica sempre più esigente, fiancheggiata da un nuovo alleato: Internet.
La polemica circa il progetto idroelettrico lungo il corso del Nu imperversò per un anno, fino a quando il fantasma di un pericolo terremoto, agitato da geologi ed esperti, indusse il governo cinese ad un primo ripensamento. Anche questa volta a dare l’alt fu Wen Jiabao, il quale invitò a mantenere “una approccio cauto e scientifico”. Ma il boccone era troppo ghiotto perché l’economia energivora del Dragone -sempre più orientata verso la sostenibilità- vi potesse rinunciare. Così, dopo 10 anni di stallo il progetto è stato reinserito nel Dodicesimo Piano quinquennale, che stabilisce le linee guida dello sviluppo nazionale fino al 2015.
Il Nu viene considerato il quinto fiume più grande del paese, con oltre 20 gigawatt di potenziale idroelettrico soltanto nel suo corso medio e inferiore. Sebbene la querelle tra sviluppatori e ambientalisti sia destinata a continuare -come sottolineato da Liu- se non fosse stato per la diffusione di notizie coordinata da Ong e giornalisti investigativi, i 500mila residenti nella zona sarebbero rimasti all’oscuro dei rischi a cui andavano incontro. “I report incoraggiano le persone e accrescono la loro consapevolezza” ha commentato.
Ed è per questa ragione che la crisi ambientale affrontata dalla Cina può essere considerata un catalizzatore per una nuova democrazia. Liu cominciò a maturare questa convinzione nel 2004, quando decise di abbandonare scandali e corruzione per occuparsi di inchieste “verdi”. Il suo primo reportage del genere coprì il progetto della Diga delle Tre Gole, entrata in funzione nel giugno 2012, e fino a non molti anni fa presentata come il fiore all’occhiello della leadership cinese. La centrale più grande al mondo, “il progetto più grandioso degli ultimi mille anni di storia nazionale”.
Nonostante quasi vent’anni di dibattito, solo di recente Pechino ha cominciato ad ammetterne gli effetti negativi. Da tempo gli esperti avevano mostrato preoccupazione per le sorti del porto della megalopoli di Chongqing, il principale sul corso superiore dello Yangtze, la cui navigabilità rischiava di essere messa a repentaglio dall’innalzamento del livello dell’acqua nel serbatoio dovuto al deposito di sedimenti. Ma nei piani della statale Three Gorges Project Corporation il giro d’affari sarebbe stato tale da permettere la cessione di parte del ricavato al governo della municipalità per effettuare il dragaggio necessario.
Non sembrava, invece, venir preso in considerazione il rischio inondazioni, con conseguente seconda massiccia delocalizzazione della popolazione, o la possibilità di perdere definitivamente l’accesso al porto, qualora sedimenti e ghiaia avessero raggiunto un livello ingestibile. “Durante la mia visita presso le Tre Gole ho potuto notare come la diga avesse causato un collo di bottiglia nei trasporti fluviali sul fiume Yangtze. Molte navi di grandi dimensioni non erano più in grado di passare direttamente attraverso la chiusa. La gente ha presto realizzato che la diga non era così facile da attraversa come previsto. La sua capacità annua non ha mai raggiunto le 50milioni di tonnellate stabilite da progetto, né un’imbarcazione da 10mila tonnellate è mai riuscita a raggiungere direttamente Chongqing”.
Le autorità avevano mentito su tutto. “Una volta completate le interviste sul posto, ho inviato una copia del mio report alla Three Gorges Corporation, in modo da poter verificare la presenza di errori. Questa era la condizione alla quale la compagnia aveva accettato di essere intervistata. La sera mi chiamarono per dirmi di non pubblicare il reportage o di tagliare le parti sul porto di Chongqing e il collo di bottiglia dei trasporti. Chiesi se vi fossero delle inesattezze e mi risposero che no, era tutto giusto ma che si trattava di questioni di ‘interesse nazionale’. Mi dissero inoltre che diversi esperti contrari al progetto erano stati bollati come ‘nemici dello Stato’ e che non avrei dovuto legarmi a loro.”
E’ normale prassi edulcorare simili report prima della pubblicazione, “per fortuna io però lavoravo per un giornale dedito alla narrazione del vero, così l’articolo è uscito integralmente”. La motivazione conclamata della costruzione della diga era quella di prevenire le inondazioni, eppure, risulta sempre più evidente che la sua capacità di arginare le piene sarà ben inferiore a quanto inizialmente pronosticato.
“Possiamo trarre conforto dal fatto che negli ultimi anni è stata portata alla luce un po’ di verità, e le persone hanno una comprensione più realistica del progetto della diga delle Tre Gole. Per la prima volta nella storia del Paese, la gente ha potuto discutere di qualcosa e dire no. Ricordo ancora quando fu ripresa in considerazione la costruzione della diga, ai tempi in cui frequentavo l’università a Shanghai. Era così eccitante l’idea di poter dire finalmente la nostra.” Ma per Liu la pietra miliare della mobilitazione “verde” è rappresentata dal caso che ha coinvolto il Yuanmingyuan, l’Antico Palazzo d’Estate andato quasi completamente distrutto nel 1860, durante la Seconda Guerra dell’oppio.
Nel 2005 il progetto di impermeabilizzazione del parco e dei suoi laghi, per evitare che l’acqua filtrasse nel terreno, causò un’alzata di sopracciglio da parte degli ecologisti allarmati dalle possibili ripercussioni ambientali. La notizia divenne virale quando, a sorpresa, un giornalista dell’ufficialissimo Quotidiano del Popolo decise di occuparsi del caso.
“Cominciai ad investigare sulla questione e scoprii che il progetto era stato avviato senza studi adeguati e senza un’approvazione ufficiale. Dopo non molto fu organizzata la prima conferenza pubblica nel campo della difesa ambientale, alla quale presero parte esperti, Ong e media, tutti invitati a commentare il progetto. L’evento fu anche trasmesso su internet da alcune emittenti”, ha raccontato Liu. Dietro questo successo mediatico si celava la figura di Pan Yue, uno dei cosiddetti “principi rossi”, i figli dei padri della Patria, dichiaratamente riformista, e da diversi anni al ministero per la Protezione dell’Ambiente, un braccio relativamente debole del governo di Pechino.
Ostracizzato da parte della dirigenza, a Pan va il merito di aver posto l’accento sulla necessità di implementare le normative in materia di difesa ambientale, e di aver aperto le porte ai mezzi di comunicazione di massa. “E’ stato un grandissimo esempio di democrazia” ha affermato Liu, dicendosi molto soddisfatto del crescente interessamento mostrato dal Partito verso le ambizioni ecologiste del popolo.
“La Cina è pronta per la democrazia, ma è anche chiaro che essa ha vari livelli. Al momento per i cittadini la cosa più importante è poter difendere sé stessi e la propria famiglia. Questo sarebbe abbastanza per ora. E’ incoraggiante vedere che molti progetti rischiosi siano stati sospesi in seguito all’emergere di proteste”. Nel frattempo, in tempi di “socialismo con caratteristiche cinesi”, la democrazia non resta che esercitarla in rete.
Già nel 2007 il web aveva sprigionato tutta la sua potenza quando nella città di Xiamen, i cittadini erano scesi in strada per dire no ad un impianto chimico pianificato da una società taiwanese con il placet del governo locale. In quell’occasione, le autorità si erano date la briga di comprare il silenzio dei media provinciali, così che ai manifestanti non restò che diffondere notizie e organizzare “passeggiate in un determinato posto ad una determinata ora”, comunicando tra loro via internet o attraverso messaggi di testo. Lo scorso luglio le proteste di Shifang, nel Sichuan, e Qidong, ad un’ora d’auto da Shanghai, sono terminate a loro volta con una vittoria “verde” e il trionfo dei social network. Quando le notizie cominciano a scorrere sul filo del web fermarle diventa un’impresa quasi impossibile anche per i censori di Pechino.
Quale sia il grado di sopportazione della leadership cinese, però, non sembra essere chiaro nemmeno a Liu. Estraneo agli equilibrismi della censura, ritiene che non esista alcuna strategia per aggirare i controlli, né alcuna linea rossa invalicabile. Non resta che procedere per tentativi fino a quando la scure non si abbassa. In questo clima di mobilitazione sociale, a fare la differenza sarà la neonata classe media cinese, adulata dai nuovi “signori di Pechino” con un piano di riforme che vede in cima alle priorità sicurezza alimentare, salute pubblica e protezione ambientale.
Liu non ha dubbi: soltanto il problema ambientale può smuovere veramente la “middle class”, sempre più preoccupata per l’inquinamento divenuto ormai intollerabile e diffusamente percepito come una grave minaccia per la salute. Un argomento non politicamente sensibile, e dunque tollerato e monitorato con crescente interesse dalle autorità in quanto motivo di malumore popolare e causa di “incidenti di massa”; in grado di esercitare un impatto più esteso rispetto alle espropriazioni forzate o alle dispute sul lavoro.
Esattamente quello che ci vuole a fare da ponte tra funzionari, gente comune e alte sfere del Partito. “Il fatto che non ci siano più manifestazioni in piazza Tian’anmen non significa che non esista più un movimento democratico in Cina”, sentenzia Liu, “il movimento ambientalista è un nuovo movimento per la democrazia”.
*Alessandra Colarizi- Classe ’84, bazzica l’Estremo Oriente dal 2005, anno in cui decide di chiudere per sempre i tomi di diritto privato e aprire quelli di cinese. Si iscrive alla Facoltà di Studi Orientali dell’Università di Roma La Sapienza e nel 2010 consegue la laurea magistrale. In questi anni coltiva il suo amore per cineserie e simili, alternando lo studio sui libri a frequenti esplorazioni attraverso il continente asiatico. Abbandonata la carriera accademica, approda alla redazione di AgiChina24, dove si diletta con i primi esperimenti giornalistici, passa per lo Studio Legale Chiomenti di Pechino, infine rimpatria. Poco incline alla vita stanziale, si dice che sia già pronta a ripartire.
[Proteste ambientali in Cina, Foto Credits: fmnnow.com]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.