E’ stata una mossa, nella sua semplicità, a sorpresa. Tra tutte le possibili combinazioni, nessuno aveva previsto la decisione di Google di spostare il proprio motore di ricerca dalla Cina a Hong Kong. Una soluzione che ha spiazzato tutti, forse perfino il governo cinese, che si è nascosto dietro dichiarazioni di circostanza circa i rapporti tra Cina e Stati Uniti (nessuna crisi, è stato sottolineato) e poco altro se non la propria «indignazione». Casa Bianca invece, «delusa» dall’esito della vicenda.
Good morning China, bye bye Google, si leggeva ieri mattina in molti tra twitter, buzz e i blog dell’universo web cinese. La Cina si è svegliata con la sorpresa: l’annuncio di Google è arrivato infatti nella notte, attraverso un comunicato sul blog del motore di ricerca made in Usa. «Riteniamo che la possibilità di fornire ricerche non censurate in cinese semplice attraverso Hong Kong sia una soluzione ragionevole: è legale e aumenterà significativamente l’accesso all’informazione dei cinesi. Ci auguriamo che il governo locale rispetti la nostra decisione, anche se siamo consapevoli che potrebbe bloccare l’accesso ai nostri servizi». Hong Kong garantisce infatti la possibilità di arginare i filtri imposti di default dal governo cinese, ma non permetterà di eliminare l’eventualità di finire nell’elenco dei servizi on line che vengono poi bloccati dal Great Firewall cinese, ovvero il meccanismo automatico e umano attraverso il quale viene deciso quanto si può e quanto non si può vedere nell’internet cinese. Si tratta di un sistema che può essere superato, attraverso l’uso di proxy, un sentiero scavato tra i percorsi obbligati del governo locale, in cui si esce dalla rete cinese, agganciandosi a punti d’accesso casuali sparsi per il mondo. Facebook, Youtube, Twitter, sono tutti censurati in Cina, ma ugualmente raggiungibili attraverso scappatoie.
Se Google finisse nella rete della censura cinese, servirebbe un proxy – che pur funzionando non consente una navigazione rapida e agile – anche solo per controllare la posta. Nel frattempo Google sposta piano piano tutto: nel tardo pomeriggio pechinese di ieri compiendo varie ricerche sul Google cinese traslato a Hong Kong, si potevano caricare le immagini del massacro di Tiananmen, mentre la connessione cadeva alla ricerca di Falungong o Dalai Lama.
Nella giornata storica, già definita G-day in Cina, non sono mancate piccole processioni di attivisti presso la sede del gigante di Mountain View a Pechino, nonché riflessioni sulla mossa di Google. La censura cinese fa strani scherzi. Ai Wei Wei, noto artista locale – è quello che disegnò il Nido d’Uccello – ormai attivista di punta del movimento cinese (ha denunciato le morti nascoste di bambini nel terremoto Sichuan, finendo per essere arrestato prima e menato poi dalla polizia), in una chiacchierata nel suo studio raccontava il meccanismo strano messo in moto dall’opera censoria del governo: «ogni intelligenza si sviluppa in circostanze inizialmente ostiche. Diventi più furbo tra le difficoltà. Il governo ha sempre tentato di limitare Internet e sia i vecchi sia i nuovi citizens trovano i modi per trovare delle soluzioni. E’ Internet che unisce queste generazioni permettendo ai giovani di acquisire una sorta di coscienza civile».
Sulla coscienza civile di Schmidt e Brin non ci si può giurare, ma la destinazione Hong Kong risulta essere una sorta di sgarbo, ironico, alla teoria di un paese, due sistemi tanto sbandierato dalla Cina armoniosa di Hu Jintao, direttamente dal grande vecchio Deng Xiao Ping. E’ per quello che a molti cinesi la decisione di Google è piaciuta: assomiglia a molte soluzioni anti censura già praticate, almeno nell’intento.
Non tutti sono soddisfatti, naturalmente. Secondo alcuni Google ha seguito solo le ragioni del portafoglio, causa il suo poco mercato in Cina e la predominanza del cinese doc Baidu, finendo per diventare uno strumento di pressione statunitense nei confronti della «dignità cinese». Altri invece hanno posto domande sulle reali cause della rottura e su alcuni silenzi in cui Google non è stato da meno del governo cinese. Qualche giorno fa sul web ha cominciato a girare un documento di alcuni cittadini cinesi in cui venivano poste domande sia all’azienda statunitense, sia al governo di Pechino: «siamo coscienti dei nostri diritti e come cybernauti globali dobbiamo avere il pieno accesso a tutte le informazioni», hanno scritto. E poi le domande, tra le quali: «il governo cinese come ha informato Google? Con quale ministero? Secondo quali procedure legali?» O ancora: «quali contenuti il governo cinese ha chiesto a Google di censurare? A parte violenza, pornografia e gioco on line, quali altri contenuti sarebbero stati proibiti?» Domande ad oggi, senza risposta: né da Google, né dal governo cinese.
[Pubblicato su Il Manifesto il 24 marzo 2010]