Partire per il Giappone alla ricerca di qualcuno e perdere se stessi. Sparire (Marsilio, pp. 288, €17,50) è la storia di un viaggio particolare nel Paese del Sol Levante, alla riscoperta di sé. alla vigilia della catastrofe dell’11 marzo 2011. China Files ve ne regala un estratto (per gentile concessione di Marsilio Editori) Aveva ventitré anni e veniva da un paese della Transilvania. Ovviamente era cresciuta in miseria e, appena compiuti diciassette anni, su consiglio di un’amica si era iscritta a un sito internazionale che reclutava hostess in tutta l’Europa dell’Est, in America Latina e nel Sudest asiatico per i club giapponesi e coreani. Ma il mercato davvero importante era quello giapponese, difatti Ana si era fatta in quattro per arrivarci. Nel suo profilo si era detta disposta a tutto, si era fatta foto ammiccanti in lingerie e si era proposta a più di cento club in tutto il paese.
Ebbe alcune offerte quasi subito da piccoli locali in città di campagna, ma appena arrivò la prima offerta da Tokyo la accettò. L’avrebbero importata in Giappone procurandole un visto chiamato tarento e l’avrebbero fatta lavorare in alcuni club per un periodo variabile tra i tre e i sei mesi. Naturalmente lei fece di tutto per rimanere sei mesi e per farsi richiamare subito dopo per un altro contratto. Continuò così per quasi tre anni, mise da parte un mucchio di soldi e ne spedì a casa.
A parte l’affitto, pagava solo i vestiti per lavorare nei locali. Al resto pensavano i clienti. La portavano a cena, le regalavano computer, gioielli, borse, e in cambio volevano solo il suo numero di telefono. Lei li sfruttava con solerzia. Piangeva miseria al momento giusto, diceva che era iscritta all’università e si faceva pagare biglietti aerei per la Romania, inventava malesseri per giustificare folli spese mediche. Una cistite durata un anno le aveva fruttato quasi un milione di yen. E nel frattempo si era fidanzata con un connazionale. L’aveva raccattato in mezzo alla strada, era appena stato pestato da un gruppo di hostess russe e lei se l’era portato a casa. Se c’era una cosa che Ana odiava erano i russi, le donne in particolare. Nel giro di poco si erano messi insieme.
Lui era in Giappone illegalmente, il visto scaduto da mesi, e lei, pur non potendo permettersi di rischiare, decise che l’avrebbe tenuto con sé. Dopo i prevedibili dissapori dovuti alle difficoltà emotive per un uomo rumeno nel farsi mantenere da una donna, riuscirono a trovare una specie di equilibrio e a stare insieme. Il rapporto naturalmente era basato sulle menzogne – da parte di lei. A lui, che si chiamava Victor, diceva che non aveva mai rapporti sessuali con i clienti, mentre ai clienti diceva di essere single e di sentirsi addirittura sola, senza che né l’uno né gli altri conoscessero mai la verità. Alla stessa Greta questo funambolismo esistenziale sembrava irrealistico.
Di fatto Ana aveva, seppure saltuariamente, rapporti intimi con alcuni dei suoi clienti, di solito con i più generosi e qualche volta con i più intraprendenti dato che, a detta sua, non riusciva a dire no a chiunque le chiedesse di dargliela, purché con cortesia. Sua madre, diceva spesso Ana, le aveva insegnato a essere gentile con tutti. Tuttavia la situazione in casa, con il fidanzato clandestino, arrivò a un punto di saturazione. Ana aveva messo da parte varie decine di milioni di yen e possedeva sette laptop, di cui due Apple. Un mucchio di gioielli. Quattro cellulari. Un guardaroba da artista di musical. I suoi clienti, quasi tutti in età pensionabile o già alle prese con problemi di ordine geriatrico, avevano cominciato a richiederle favori particolari. Ana si assentava sempre più spesso per vacanze al mare, alle terme, a Kyoto, a Guam, alle Hawaii.
Victor aveva cominciato a non credere più alla storia delle relazioni caste e si era messo a frugare tra le sue cose, scassinarle i cellulari, seguirla, sottoporla a interrogatori alle sei del mattino, quando lei tornava a casa dal lavoro, tuttavia senza mai trovare prove schiaccianti. Ana quindi, esasperata, aveva deciso di tornare in Romania. Con i soldi messi da parte avrebbe comprato una villa a Cluj, la città di Victor, l’avrebbe arredata come una reggia e avrebbe fatto la bella vita. Inviò i soldi alla famiglia di Victor che si premurò di trovare il terreno, acquistarlo ed erigerla (tre piani, sei camere da letto, tre bagni, piscina esterna, due cucine, terrazzo panoramico al terzo piano, ampio giardino con cespugli artistici, garage per la Mercedes). Ana e Victor tenevano tutto sotto controllo da Tokyo e osservavano su Internet il progresso dei lavori e degli acquisti.
Era questione di mesi e sarebbero tornati a casa da ricchi. Le ultime bugie di Ana furono grossolane ma poteva contare sul fatto che Victor non pensava che al ritorno a casa e aveva smesso di tormentare se stesso e lei. Ana andò a letto con i suoi sette clienti più affezionati in cambio dei soldi per il biglietto aereo per Bucarest, uno da ognuno di loro (in prima classe perché in economica le si rovinavano le gambe – i suoi clienti non l’avrebbero permesso). Disse a ognuno che stava tornando in Romania per un paio di settimane per discutere la tesi di laurea. Ci credettero tutti. Incassò i rimborsi di sei cancellazioni.
Fece le valigie e si fece portare in taxi all’aeroporto di Narita da Yoshida-san. Salutatolo, tornò in città in treno per farsi riaccompagnare dalla limousine di Nishimura-san, il quale seduto accanto a lei le chiese, infilandole nella borsetta una mancia da spendere durante le noiose ore al duty-free, un ultimo favore.
Ana eseguì senza il minimo imbarazzo, e fu in quel momento che percepì chiara dentro di sé l’inedita forma di affetto che nutriva per i suoi clienti. Con il pene grinzoso di Nishimura-san in bocca, tra grumi di peli pubici e odore di cipolla bollita, si accorse di non provare alcuna sensazione riconducibile allo schifo né al senso di colpa. Si trattava altresì di attaccamento, non tanto all’organo quanto all’agglomerato di carbonio e pensieri a cui l’organo apparteneva e, per estensione, anche agli altri clienti.
Arrivata a Bucarest ci trovò la famiglia di Victor al completo. Madre, sorella e fratello, tutti schierati e sorridenti, l’accolsero come una regina. La vista della sua villa all’imbrunire era sontuosa, sorta come un tumore benigno ai margini della città, in una via insignificante fatta di baracche e palazzine sovietiche e cadenti, e ora splendeva ai raggi obliqui del sole, nitida e luminosa mentre tutto il resto era semplicemente fuori fuoco. I primi giorni Ana si premurò di inviare email ai suoi clienti a Tokyo. Li rassicurò, ad alcuni disse che sentiva la loro mancanza, promise di inviare foto della sua laurea. Poi, quando le pressioni di Victor affinché tagliasse i ponti con quel mondo divennero insostenibili, scrisse che le avevano diagnosticato un cancro. Le pressioni sembravano essere l’unica esternazione di cui la famiglia di Victor era capace. Ana si era ben presto ritrovata a essere un’ospite indesiderata in casa sua.
Le veniva chiesto di fare le pulizie, di non ascoltare musica ad alto volume. La madre di Victor si lamentava della sua cucina e le aveva in alcune occasioni chiesto di rifarle la cena daccapo. Ana cominciò a lamentarsi di questo con il fidanzato ma non trovò in lui un alleato. Completamente succube di sua madre, così come la sorella e il fratello, non osò mai contraddire la genitrice ma anzi esortò Ana ad avere pazienza e ad accontentarla, dato che, disse Victor un pomeriggio prendendo il sole a petto nudo in giardino mentre la fidanzata infuriata gli faceva ombra sovrastandolo, «La mamma ha fatto tanto per te».
Fu in quel momento che Ana perse il controllo. Tornò dentro come una furia e sbraitando cacciò di casa la donna e i due fratelli di Victor, impegnati a occupare entrambe le linee telefoniche. La donna guardò Ana con un misto di fastidio e pietà, poi le spiegò che loro non sarebbero andati da nessuna parte, anzi era lei a doversene andare se non le piaceva vivere lì. Ogni rimostranza fu inutile perché, le spiegò la donna con tutta la naturalezza del mondo, la casa era stata intestata a lei, la madre di Victor, e così la macchina, e così in buona sostanza tutto il resto. Come si aspettava che si potesse acquistare un terreno, costruirci una villa e arredarla se lei non era nemmeno in Romania? Con quale arroganza poteva pensare di essere la proprietaria di una casa che non aveva fatto nulla per mettere in piedi? Pensava davvero che i suoi soldi, soprattutto guadagnati in quel modo, valessero più dell’impegno che lei e i suoi figli avevano profuso nel renderla così bella?
Ana non uscì dalla sua stanza per settimane. Victor provò a parlarle ma lei neanche rispondeva alla voce melliflua fuori della porta. Aspettava che se ne fosse andato per prendere il cibo che le lasciava di fuori. Da lassù, al terzo piano, sentiva le risate della madre di Victor davanti alla televisione, origliava le telefonate della sorella con l’orecchio sul pavimento, sentiva Victor e il fratello discutere animatamente davanti alle partite di calcio via cavo. Due volte al giorno protestava lanciando i suoi escrementi in piscina dalla finestra, ma nessuno si premurava di raccoglierli tanto era ancora primavera.
Una mattina di giugno, al sorgere del sole, Ana ripensò al Giappone e ai suoi clienti. Non aveva risposto a nessuna delle email che le avevano inviato dopo la notizia del tumore. Erano passati mesi, Ana pensò di essere stata data per morta. Le mancavano i suoi clienti, ma soprattutto le mancava la sua vita. Il senso di libertà che le dava il semplice fatto di poter gestire se stessa, l’essersi del tutto e per sempre svincolata dalla sua famiglia di pezzenti, le mancavano le strade silenziose del mattino quando tornava a casa dopo una nottata di champagne e finte risate. Le mancavano gli invisibili occhi sorridenti dei giapponesi.
Le mancava il suo minuscolo appartamento a Ikebukuro, in una strada sottile come i binari di un tram, la finestra che affacciava su un altro condominio, tanto vicino che poteva toccarlo senza neanche sporgersi. Pensava con nostalgia anche al capo del suo ultimo club, a quando salutandola le dava una strizzatina al sedere e le diceva l’unica cosa che sapeva in rumeno: La multi ani, per gli anni a venire. Così, mentre l’alba cominciava a inondare la stanza, Ana raccolse i suoi vestiti più belli, le scarpe e i gioielli. Preparò le due valigie di Gucci che le aveva regalato Abe-san e si lanciò giù per le scale tirandole avanti a sé. Afferrò il telefono all’ingresso e chiamò un taxi. Svuotò tutti i portafogli che trovò nelle giacche e le borse lasciate in giro per casa e uscì. All’autista chiese di portarla all’aeroporto di Cluj.
Stavolta era sbarcata a Osaka perché a Tokyo si vergognava a tornare. In quattro e quattr’otto aveva trovato lavoro in un club a Kita-Shinchi, un appartamento e un mucchio di clienti che la trattavano come meritava. E di lì a poco, appena lasciato il peruviano morto di fame con cui era finita quasi per sbaglio, si sarebbe sposata con un cliente ricchissimo, un banchiere, che anziché parlare le regalava brillanti. Sempre che non fosse riuscita a intortare il pelato.
*Fabio Viola è nato a Roma nel 1975 ma ha vissuto per un lungo periodo a Osaka (Giappone). Oltre a racconti in varie antologie ha pubblicato Italia 2 – viaggio nel paese che abbiamo inventato (minimum fax, 2008, con Cristiano de Majo) e il romanzo Gli intervistatori (Ponte alle Grazie, 2010). Ha tradotto alcune opere di Edmund White e Helen Humphreys. Collabora con VICE Magazine Italia. Per la rivista Galatea ha curato tre reportage narrativi sul cataclisma che ha colpito il Giappone nel marzo del 2011.