L’impero delle luci (16,30 € o 9,99 € ebook) racconta la storia di Kim Kiyong spia nordcoreana che dopo essersi costruito una vita al Sud è richiamato in Patria e dovrà tornare entro 24 ore. China Files ve ne regala un estratto (per gentile concessione della casa editrice Metropoli d’Asia).La prima volta che Kiyong aveva osato mettere in discussione l’idea che il socialismo fosse davvero un Paradiso terrestre era stato durante una visita al luna park di Seoul: il Lotte World. Quando era arrivato nella capitale la tv bombardava gli spettatori con la pubblicità di quel parco di divertimenti mediante filmati in cui fuochi d’artificio esplodevano sopra un lago e attori travestiti da orsetti lavatori oppure da Biancaneve ballavano o camminavano saltellando. Erano ridicoli, eppure i bambini sudcoreani li adoravano.
Quando lo aveva visitato di persona la prima volta era entrato con un biglietto che gli consentiva di accedere a tutte le attrazioni. Un aspetto che accomunava quel posto alla Corea del Nord era che all’interno il denaro contante non serviva a un bel niente. La cosa più impressionante però non erano stati gli show né tantomeno gli ottovolanti, ma il fatto che in quelle code lunghissime nessuno litigava: ognuno aspettava allegramente il proprio turno. Nessuno voleva fare il furbo e passare davanti, nessuno rimproverava gli altri per essere stato scavalcato.
Anche a Pyongyang capitava spesso di fare la fila ma quando, per esempio, si voleva salire su un treno, c’era sempre qualcuno che non rispettava l’ordine e passava davanti agli altri. I giovani soldati nordcoreani, costretti a un servizio militare di quasi dieci anni, si permettevano di farlo in virtù dei sacrifici affrontati, i membri del Partito perché pensavano che fosse un privilegio loro dovuto, altri in nome di qualche raccomandazione che erano riusciti a procurarsi. Ad ogni modo più la coda era lunga, più aumentava la tensione.
La gente aveva sempre i nervi a fior di pelle e bastava la minima provocazione per veder scoppiare delle risse. Non solo le singole persone miravano a saltare qualche posto, ma talvolta intere code si spezzavano o scomparivano del tutto. Poteva anche capitare, senza alcun preavviso, che quelle file interminabili si disperdessero perché nel frattempo le merci erano finite o perché chi era in coda ne aveva perso all’improvviso il diritto.
Ormai però, a distanza di tempo, non lo sorprendeva più nemmeno quel luna park che all’inizio gli era sembrato davvero un Paradiso terrestre (altro che Corea del Nord!). Qualche volta, tuttavia, quando passava nelle vicinanze, gli sembrava di riassaporare le sensazioni che era riuscito a provare la prima volta e sentiva dentro di sé un brivido strano, come una sorta di leggera nausea.
Gli tornavano alla mente i pensieri spaventosi che era costretto a reprimere, ripensava al fatto che il Paradiso – almeno quello socialista – era solo una lurida menzogna e che, se mai sulla terra ve ne fosse stato uno, sarebbe stato meglio concepirlo come quel luna park. Era una paura che lo assillava e, per esorcizzarla, saliva su una di quelle semideserte e noiose giostre a canotto o sui trenini che lo sballottavano da una parte all’altra nei meandri di oscure caverne. Continuò a camminare superando i negozi che si susseguivano lungo la strada. Il proprietario di una di quelle attività, con i capelli raccolti in una coda, suonava con una chitarra elettrica un pezzo di Gary Moore, mentre alcuni studenti liceali con i volti cosparsi di punti neri guardavano la vetrina desiderosi di comprarne una anche loro. Kiyong si fermò d’un tratto di fronte a un negozio che vendeva armoniche tremolo.
Armoniche… Kiyong era nato e cresciuto in uno di quei palazzi che la gente soleva chiamare “dell’armonica” proprio perché, visti dall’alto, apparivano come le ance di quello strumento, attraversati al centro da un lunghissimo – interminabile – corridoio buio illuminato solo alle due estremità dalla poca luce del sole che riusciva a infiltrarsi. Su entrambi i lati si susseguivano porte che davano accesso a miniappartamenti grandi poco più di una trentina di metri quadri. Erano spazi che costringevano a rinunciare a qualsiasi privacy: le pareti erano sottili come fogli di carta e bastava aprire la porta di casa propria per trovarsi ell’alloggio di qualcun altro. Le lampadine a basso voltaggio non illuminavano a sufficienza l’interno di quel corridoio che, scuro e non raggiunto dalla luce del sole, puzzava di muffa.
L’abitazione di Kiyong si trovava proprio al centro di quelle ance di armonica, ma per sua fortuna era orientata a ovest e quindi alla sera era rischiarata da qualche seppur flebile raggio di sole. Ogni tanto una folata di vento si intrufolava da un’estremità del corridoio e, quando urtava contro le porte aperte in quello stretto budello, produceva suoni acuti, proprio come uno strumento musicale. Talvolta il vento era abbastanza forte da riuscire a sbattere le porte e a spingersi fino all’estremità opposta del corridoio. Bastava però che qualcuno chiudesse una delle due entrate perché quel concerto si interrompesse all’istante. Quando era piccolo il padre lo accompagnava spesso a pescare al fiume Taedong. Passavano il tempo con la canna in mano e aspettavano in silenzio che abboccasse qualche pesce, per poi portarlo a casa.
Il padre era un ingegnere edile specializzato nella costruzione di dighe. Aveva progettato quella del fiume Amnok e quella del fiume Imjin, e il Partito gli aveva tributato numerosi riconoscimenti in virtù del fatto che, in un Paese a corto di energia come la Corea del Nord, i generatori idroelettrici erano davvero di vitale importanza. I luoghi di costruzione di questi impianti erano segreti perché si sapeva che sarebbero stati i bersagli principali di eventuali bombardamenti americani; lo stesso padre di Kiyong era sorvegliato a distanza per paura che potesse rivelare le informazioni di cui era in possesso. Anche quando era andato in Russia per motivi di studio, agli inizi degli anni ’70, era stato privato quasi completamente della sua libertà e aveva l’obbligo di redigere dei rapporti giornalieri su tutte le attività che svolgeva.
Quando Kiyong si era trasferito in Corea del Sud si era reso conto che si trattava di una gran presa in giro, poiché gli americani e i sudcoreani conoscevano l’esatta ubicazione di tutti gli impianti situati in Corea del Nord. Molto probabilmente l’élite al potere a Pyongyang lo sapeva, però non rinunciava a quei controlli considerandoli parte di una tradizione che andava rispettata. In Corea del Nord ogni cosa finiva per diventare top secret: lo era perfino la qualità dell’acqua di certi fiumi nei quali, in mancanza di sistemi di depurazione, confluivano scarichi industriali e scorie di metalli pesanti.
Era tabù qualunque espressione che accennasse a mettere in dubbio il mito del Paradiso socialista, e una frase innocente che sembrava contenere una critica velata al sistema poteva fungere da pretesto per accusare qualcuno di “spionaggio a favore degli imperialisti americani”.
*Nato nel 1968 a Hwach’on, approdò a Seoul nel 1980, dopo aver seguito le varie tappe della carriera militare del padre. Al suo debutto, nel 1995, nella rivista letteraria «Review», con il suo romanzo ‘Io ho il diritto di distruggermi’, ottenne il premio come migliore autore nel concorso Munhaktongne. A quell’opera sono seguiti nel 1997 il romanzo breve Chiamata e nel 1999 Cosa ci fa un morto nell’ascensore che, insieme ai suoi lavori più celebri (L’impero delle Luci, Fiore nero e Quizshow) gli hanno assicurato sempre ottime recensioni. Tradotte in tutto il mondo, le sue opere hanno ispirato film e serie televisive di notevole successo.