Niccolò Mannucci e François Bernier sono i due protagonisti de Il trono cremisi (14,45 €), romanzo storico di Sudhir Kakar ambientato nell’India decadente di fine era Moghul. Uno veneziano, uno francese, i due medici descrivono l’India imperiale di fine XVII secolo tra la corte musulmana e la Malabar portoghese. China Files ve ne regala un estratto (per gentile concessione della casa editrice Neri Pozza).
Per gradi, man mano che il nostro rapporto progrediva, scoprii che il fascino esercitato su Luigi dalla medicina tradizionale indiana era nato dalla frequentazione di un medico indù conosciuto in un remoto villaggio a metà strada circa fra Goa e le terre dei Maratha: Luigi andava a trovarlo ogni qual volta gli capitava di recarsi da quelle parti. I suoi contatti con quell’uomo, che lui chiamava rispettosamente Vaidraj, re dei medici, duravano da quindici anni. Manteneva il segreto per non correre il rischio di malintesi con i suoi confratelli francescani. O, peggio ancora, con l’Inquisizione.
«E poi non ne parlo» mi confidò in tono esitante «perché temo che Vaidraj combini la medicina con la stregoneria».
«La stregoneria?» gli feci eco io.
«L’ho visto compiere prodezze diagnostiche straordinarie limitandosi a tastare il polso al paziente. Un medico esperto, mi ha spiegato, riesce a visualizzare l’immagine di ogni organo importante, riflessa nel ritmo e nella dinamica delle pulsazioni, oltre che nella temperatura del corpo. Ma a essere ancora più sbalorditiva – ed è in questo che sospetto il ricorso alla stregoneria – è la sua capacità, nel caso di malattie di vecchia data, di prevedere il momento della morte dell’infermo e di indicare con precisione in capo a quanti giorni e addirittura a quante ore avverrà il decesso».
Rimasi ammaliato dai racconti di Luigi. In futuro anch’io, mi ripromisi, avrei imparato a padroneggiare l’arte indiana della lettura del polso, a dispetto delle sue implicazioni
con la stregoneria.
«I sistemi di Vaidraj contemplano molti altri segreti» continuò il mio mentore. «Persino i medici maomettani alla corte imperiale, seguaci delle dottrine di Avicenna e Averroè e inclini, come il resto del popolo al quale appartengono, a un disprezzo generale verso gli indù, non disdegnano di adottare alcuni dei loro rimedi e dei loro metodi».
Adesso capivo perché i dottori degli indù godevano di tanta stima a Goa, anche da parte dei portoghesi. Erano tra i pochi pagani ai quali fosse consentito percorrere le strade al riparo di ombrelli sorretti da servitori, sebbene venisse negato loro il privilegio di portare le scarpe. Vedere un medico famoso, avvolto in magnifiche vesti e seguito dai domestici incaricati di fargli ombra con un parasole riccamente ornato, camminare scalzo, atteggiando il volto a un’espressione dignitosa contraddetta dalla cruda verità dei piedi nudi, aveva sempre suscitato in me una strana mistura di sdegno e ammirazione.
Fu la parola “segreti” a conficcarmisi nella mente come un amo nella bocca di un pesce. Se volevo frequentare nobili e principi nella capitale dell’impero mogul ed essere remunerato con borse piene di mohur d’oro e collane di perle, anziché con le poche monete d’argento sborsate a malincuore dai comuni cittadini per le cure mediche, dovevo apprendere i rimedi misteriosi dei vaid che i miei colleghi e rivali musulmani ed europei non conoscevano ancora. Cominciai ad assillare Luigi perché mi conducesse con sé da Vaidraj. Vivevo a Goa da nove mesi quando infine il francescano acconsentì.
Il villaggio del guaritore si trovava a non più di quindici chilometri nell’entroterra, ma impiegammo lo stesso buona parte della giornata per arrivare a destinazione. Innanzi tutto risalimmo per un paio d’ore uno stretto canale, che si addentrava in una fitta boscaglia di mangrovie verde scuro in cui i raggi del sole non erano mai penetrati. Poi attraversammo una pianura dalle dolci ondulazioni, cosparsa di risaie di ogni sfumatura di bruno, in paziente attesa degli acquazzoni monsonici destinati ad arrivare solo di lì a cinque mesi. Boschetti di alberi coltivati con cura ci annunciarono la presenza degli uomini molto prima che scorgessimo qualche traccia delle loro abitazioni.
Situato ai piedi di una collinetta, il villaggio dove abitava il medico era più grande di quanto mi aspettassi. Le file di capanne di fango coperte da fronde di palma secche, onnipresenti a Goa, cedevano ogni tanto il posto a un occasionale edificio in muratura dal tetto di tegole. Al centro del villaggio c’era un bazar piccolo, ma animato. Quasi tutti i venditori erano donne, accovacciate al riparo di laceri ombrelli, con le mercanzie esposte di fronte a loro su stuoie di fibra di cocco. Offrivano cumuli di zenzero secco, tamarindo, lenticchie, zucchero di palma, noci di areca, caschi di minuscole banane gialle, papaie, giare d’olio di sesamo. Avvolte nei sari rossi o verdi di cui si facevano passare un lembo tra le gambe per poi fissarlo dietro all’altezza della vita, portavano succinti corpetti a maniche corte e spettegolavano tra loro ad alta voce mentre contrattavano con i clienti. Con la sua vivace e cordiale confusione, il bazar mi ricordò i mercati di Venezia.
Lo superammo per raggiungere il capo opposto dell’abitato, dove Vaidraj ci aspettava nel cortile spazzato di fresco della sua capanna. Nel mezzo dello spiazzo cresceva una pianta di basilico, considerato sacro dagli indù. Una veranda di due o tre gradini più alta del terreno correva lungo l’intera larghezza della casa. In un angolo del cortile c’erano peperoncini rossi appena colti messi ad asciugare al sole. In un altro angolo, sotto un baniano, sorgeva vicino al pozzo una piattaforma sopraelevata di fango. Quello sarebbe stato il nostro alloggio per i due giorni della visita. Di notte, coperta da sottili stuoie, la sua superficie ci avrebbe offerto un luogo dove dormire. Di giorno, arrotolate le stuoie, ci saremmo seduti là sopra a conversare con l’amico di Luigi e a consumare i pasti, serviti su foglie di banano.
I neri occhi di Vaidraj erano scaltri e penetranti, e percepii su di me il loro sguardo scrutatore prima che si addolcissero in un’espressione d’affetto mentre l’uomo dava il benvenuto a Luigi unendo i palmi delle mani. Appena ci fummo seduti sul rialzo all’ombra dell’albero, due servitori emersero dalla casa. Uno ci portò dei bicchieri colmi di biancastro latte di cocco per rinfrescarci la gola inaridita. L’altro reggeva un secchio d’acqua attinta al pozzo con cui lavarci i piedi polverosi.
Provai un’immediata simpatia per il medico indù. Durante il colloquio con Luigi, nel corso del quale si informò sulla salute dell’amico e sulla situazione a Goa, i suoi occhi scuri si fissarono spesso sul mio volto. Capii perché il francescano, un animo altrimenti solitario, gli fosse tanto affezionato. Piccolo ed esile, sulla cinquantina, con una zazzera di corti capelli grigi e un accenno di barba brizzolata sulle gote prive di rughe, Vaidraj indossava un semplice telo bianco avvolto intorno alla vita e lungo fino al ginocchio. A parte il cordoncino di cotone dello stesso colore che portava a tracolla, segno della sua appartenenza a una casta alta, era a torso nudo. Allorché Luigi mi presentò e parlò in tono affettuoso dei miei sogni di gloria presso la corte del Gran Mogul, il medico mi domandò in un portoghese zoppicante se conoscevo il konkani, la lingua locale. Risposi di sì usando tale lingua, e sul volto di Vaidraj si dipinse un sorriso infantile. L’uomo si rivolse a Luigi, e battendogli una mano sulla spalla commentò: «Sei stato un bravo maestro, amico mio». Poi si girò verso di me: «E così vorresti apprendere la nostra medicina, mi dice il mio amico».
«Sì, se siete disposto a insegnarmela».
«Mostrami il palmo destro».
Perplesso, gli porsi la mano. Lui la prese con dolcezza tra le proprie, si chinò in avanti e ne osservò le linee con attenzione. Il suo alito emanava un forte odore di aglio, che secondo le teorie indù ha il potere di purificare il sangue, e dovetti spostare impercettibilmente il capo per evitare di essere investito in pieno da quelle zaffate.
«Sì» decretò dopo un poco, annuendo con vigore e grattandosi la gota. «Hai il dono. Senza di esso, i farmaci si rifiutano di sprigionare le proprie virtù segrete. È chi li prepara a renderli efficaci, devi sapere».
Tornò a fissare lo sguardo sul mio palmo, e ne seguì delicatamente il reticolo con l’unghia dell’indice. «Questo ragazzo è destinato a fare fortuna a corte» spiegò a Luigi. «Affronterà molti pericoli. Se lo desidera, lo istruirò sui nostri rimedi per ringiovanire. Gli porteranno buona sorte e sventura».
Nell’euforia della giovinezza, che ci chiude gli occhi di fronte a parole quali “pericoli” o “sventura”, mi crogiolai nel futuro preannunciato da quella profezia. La villa tropicale divenne più splendida, le giovani donne indiane con cui avrei condiviso il letto assunsero forme ancora più voluttuose.
*Sudhir Kakar, nato in Uttarakhand nel 1938, è psicoanalista, scrittore ed accademico nel campo della psicologia culturale e psicologia religiosa.