E quel che resta è per te (12.75 €) è il romanzo autobiografico "on the road" (e con tanta bicicletta) che consacra il suo autore, Xu Xing, come "il Jack Kerouac" della letteratura contemporanea cinese. Storia di una gioventù in fuga perenne dagli sconvolgimenti della vita e della storia cinese, è anche una celebrazione della prima libertà concessa alla generazione uscita dalla Rivoluzione Culturale: quella di viaggiare. China Files ve ne regala un estratto (per gentile concessione della casa editrice Nottetempo). Quando ero partito, avevo attraversato le campagne del nord dove i contadini erano intenti a mietere il grano e dopo diversi giorni erano ancora occupati a irrigare i campi di granturco: fino a che punto dovevano penare per potersi riempire lo stomaco? E, una volta riempito lo stomaco, per cosa seguitavano ad affannarsi? Perché affannarsi ancora? Secondo la mia esperienza, se gli uomini si accontentassero di riempire lo stomaco, non ci sarebbe affatto bisogno di penare così.
Svoltai in un sentiero di campagna, c’era un villaggio appena fuori della strada principale e io avevo deciso di sottoporre a verifica il mio nuovo piano. Venivano verso di me due asinelli, seguiti da un ragazzino di quindici o sedici anni che li sferzava senza sosta sul posteriore con un ramoscello; gli asini però non accennavano a cambiare andatura, cosa che al giovane non pareva fare né caldo né freddo, come se neppure lui sperasse minimamente che potessero mettersi a trottare, ma li frustasse solo per abitudine.
Gli domandai dove potessi trovare il capo del villaggio o il segretario del Partito e lui sollevò il mento in un cenno freddo e distante che mi stupì un poco, poi si spiegò:
“Sono quelli che si sono arricchiti per primi, quei bastardi! Vai avanti dritto finché trovi una casa alta con uno spazioso cortile, o è quella del capo del villaggio, o quella del segretario”.
Seguendo le sue indicazioni arrivai davanti a un imponente edificio di mattoni rossi, ma non riuscivo a capacitarmi di come l’augusta dimora potesse sorgere in un luogo così malridotto, circondata da un puzzo soffocante di urina ed escrementi e da un nugolo di bambini cenciosi che correvano tutt’intorno.
Mi diressi verso la porta ma, prima che potessi aprir bocca, due grossi cani lupo mi si scagliarono contro abbaiando furiosamente, al che girai i tacchi e mi misi a correre, piantando lí la bicicletta.
Mi raggiunse una risata:
“Dove scappi? I cani sono legati!”
Voltandomi scorsi una ragazza con una giacchetta sintetica rosa che si copriva la bocca per nascondere il suo sorriso – avrà avuto diciotto o diciannove anni, le gote rosee, gli occhi nerissimi, e sembrava il ritratto della giovinezza e della salute. Mi affrettai a chiederle:
“Il segretario è in casa?”
“È mio padre,” nel dire così si volse e chiamò forte: “Papà, c’è gente!”
Uscì fuori un vecchietto malaticcio che aveva sulle spalle una giacca foderata tutta abbottonata sul davanti alla cinese.
“Siete voi il segretario del Partito?”
“Cosa volete?”
Con sussiego mi squadrò da capo a piedi, soffermando lo sguardo sui miei abiti logori.
“Vengo da su, sono sceso ieri dal capoluogo”.
Avevo usato di proposito quel “sono sceso”, ostentando una grande serietà, per tenere a bada la sua boria insolente.
“Ah, prego, entrate…”
Fattosi improvvisamente umile e ossequioso, si chinò come per invitarmi a entrare.
Nel varcare la soglia lanciai un’ultima occhiata impaurita ai due cagnacci che mi tenevano gli occhi inchiodati addosso come tigri che mirino alla preda, mentre la graziosa campagnola con una mano li teneva al collare e con l’altra cercava ancora di nascondere il sorriso.
Evidentemente il “sono sceso” che avevo pronunciato aveva suscitato nel segretario un autentico timore reverenziale, e del resto questa espressione sortisce sempre un simile effetto nella maggior parte di noi cinesi, abituati come siamo a sentirci dire innumerevoli volte nel corso di un anno che “da su sono scese delle persone” e cose di questo genere. Non importa per quale motivo questi siano scesi – se per compiere un’ispezione, per visitare la zona o per farsi una mangiata – questo “su” ti fa comunque pensare a qualcosa che si eleva al di sopra delle masse, non c’è bisogno di analizzarlo troppo approfonditamente.
Il fatto è che quando coloro che si sono impossessati dei bei posti e delle belle cose si avventurano fuori dei loro bei posti, delle loro belle cose per farsi un giro nei luoghi che hanno scartato, perché fra questi tu, con ristretto margine di scelta, possa eleggere il tuo domicilio, si dice che “scendono”.
Nel mio caso specifico ci fu una volta in cui il “su” ebbe su di me un impatto semplicemente terrificante e ciò fu agli inizi degli anni Settanta, quando compii un malaugurato passo falso.
Accadde che, sull’autobus, allungai la mano verso il posto sbagliato – anche quello era un dannato bel posto, e c’era anche una cosa bella… un portafoglio. Aveva stuzzicato la mia curiosità fin dalla prima occhiata e mi aveva fatto venire voglia di vedere quanti soldi contenesse – e con quelli quanti pasti mi sarei potuto permettere – perciò senza chiedere il permesso al suo proprietario lo sfilai dalla sua legittima dimora, se non che disgraziatamente fui beccato e altrettanto disgraziatamente una banda di omaccioni si mise a pestarmi, lasciandomi con la faccia gonfia e il naso sanguinante.
L’espressione dipinta sui loro volti non era tanto di giusta indignazione, quanto piuttosto di soddisfazione per l’occasione inaspettata di un divertimento a buon mercato.
Durante l’interrogatorio un poliziotto mi disse qualcosa a proposito di quelli di “su” e infatti poco dopo “scese” da “su” un tizio in borghese dal talento davvero eccezionale, che dal mio dossier cavò fuori un documento in cui mio padre era definito “controrivoluzionario”. Mi informò che se mi fossi rifiutato di confessare quali influenze avevo ricevuto da una “famiglia reazionaria”, questo documento mi sarebbe rimasto appiccicato addosso per tutta la vita, anche se me ne fossi andato in capo al mondo.
Per inciso, se aveste visto quanto era spessa la cartella del mio dossier, avreste sicuramente pensato che la mia vita fosse già durata più di duecento anni.
“Dopo tutto hai solo sedici anni, devi riflettere bene sul tuo futuro,” fece quello.
Da allora ho sempre provato una gran soggezione per quel “su”.
*Xu Xing (1956), nato a Pechino, era ancora un bambino quando i suoi genitori furono spediti al confino, nel turbinio della Rivoluzione Culturale. Da allora ha cominciato a viaggiare, prima per raggiungere periodicamente le famiglia nel nordest cinese; poi, semplicemente, per il gusto di farlo. Dopo aver scritto Variazioni senza tema (1985), ha vissuto in Germania, tra il 1989 e il 1994. Tornato a Pechino, ha affiancato all’attività di scrittore quella di documentarista. E quel che resta è per te è del 2003.