Delitti e misteri nell’antica Tokyo, metropoli affascinante e in continuo movimento. Le avventure di Hanshichi (due volumi, 14€ l’uno, ObarraO Edizioni) restituiscono un vivido affresco della vita cittadina nel Giappone di fine ‘800: i vicoli, le case da tè e di piacere, i bagni pubblici, le dimore dei samurai e le cerimonie conviviali. China Files ve ne regala un estratto. Per gentile concessione di ObarraO Edizioni. Ora, nel periodo Edo, i secondi e terzi figli dei samurai, anche di quelli più alti in grado posti al servizio dello shogun, erano spesso oziosi perdigiorno senza alcuna responsabilità. Il primogenito, naturalmente, aveva l’obbligo di succedere al padre come capo famiglia, ma i più giovani non avevano pressoché alcuna prospettiva nel mondo, salvo due: ricevere un incarico speciale dallo shogun in virtù di qualche straordinario talento, o venire adottati da un’altra famiglia.
Molti si limitavano a vivere sotto il tetto dei fratelli maggiori, passando il tempo senza alcuna occupazione degna di un samurai a pieno titolo. Una sorte, da un certo punto di vista, invidiabile. Da un altro, miserevole. L’inevitabile conseguenza fu la nascita di un’intera classe che eccelleva nella pigrizia e nella licenza. Per la maggior parte, i figli minori non erano che un’accolta di donnaioli. Tutti quanti bighellonavano in attesa che arrivasse qualcosa ad alleviare la loro noia.
Zio K, nato in quella sfortunata categoria, era un candidato eccellente per un compito come quello per cui Obata l’aveva consultato. Naturalmente, accettò di slancio. Poi, cominciò a riflettere con gran lena. Ormai erano passatii giorni in cui una figura leggendaria come Kintoki avrebbe solennemente vegliato al capezzale del suo signore Yorimitsu.
Per prima cosa, si rese conto, avrebbe dovuto scoprire chi fosse veramente quella Ofumi e quale relazione avesse con la famiglia di Obata.
«Quindi, non c’è nessuna donna di nome Ofumi nella tua famiglia, neppure tra le domestiche?»
Obata negò con fermezza. Di certo, nella sua famiglia non c’era nessuna donna con quel nome. Quanto alle domestiche, cambiavano di frequente, sicché non poteva ricordarle tutte, ma nessuna con quel nome aveva lavorato da lui negli ultimi tempi. Ulteriori domande rivelarono che, per quanto chiunque poteva ricordare, la famiglia di Obata aveva impiegato due categorie di donne: quelle mandate dai villaggi nel feudo provinciale e quelle assunte, invece, presso un ufficio di riferimento a Edo.
L’ufficio si trovava a Otowa ed era in relazioni d’affari con la famiglia di Obata da generazioni. Dalla storia di Omichi, sembrava probabile che la donna apparsa avesse servito in vita in una famiglia di samurai. Prima di andare a vagabondare nei domini feudali di Obata, Zio K decise di condurre indagini presso l’ufficio. Non era affatto impossibile che, all’insaputa di Obata, una donna di nome Ofumi avesse servito nella sua famiglia molte generazioni prima.
«Bene, fai del tuo meglio» disse Obata.
«E, ti prego, sii discreto al riguardo.»
«Capisco.»
Con quella promessa, i due si separarono. Il fatto avveniva alla fine del terzo mese. Era una giornata serena e i ciliegi nel giardino di Obata erano già coperti di tenere foglie verdi.
Zio K andò a Otowa e studiò i dati delle domestiche che erano passate attraverso l’ufficio. La famiglia di Obata se ne serviva da generazioni, sicché tutti i nomi delle domestiche venute da lì dovevano essere riportati nei registri. Esattamente come aveva detto Obata, non c’era alcuna traccia di una qualche Ofumi in tempi recenti.
A poco a poco, K risalì indietro nel tempo, controllando prima gli ultimi tre anni, poi gli ultimi cinque e, infine, gli ultimi dieci, ma non trovò alcun nome che cominciasse con “Ofu” – non una Ofuyu, una Ofuku o una Ofusa e, tanto meno, una Ofumi.
«Quindi, forse era una donna delle province» pensò K, ancora stringendo ostinatamente i bordi del registro e meditando sulle sue pagine. L’ufficio aveva perso i vecchi libri in un incendio trent’anni prima, sicché non c’erano documenti oltre quell’epoca. Anche se avesse esaminato tutti i vecchi registri disponibili, Zio K sarebbe arrivato a un punto morto.
Nondimeno, studiò con pazienza le pagine smangiate e la scrittura sbiadita, analizzando ogni libro compreso in quei trent’anni. Naturalmente, i registri non erano stati compilati esclusivamente per la famiglia Obata; ognuno di quegli spessi tomi orizzontali conteneva i dati per svariate case di samurai clienti dell’ufficio. Già il compito di scorrere gli elenchi e scovare il nome Obata in mezzo agli altri non era cosa facile. Per di più, la scrittura, dato che copriva un lungo periodo di tempo, non era tutta uguale. A goffe grafie maschili si mescolavano filiformi interpolazioni femminili. In alcuni punti, le voci erano riportate da una mano infantile interamente in lettere fonetiche, anziché in caratteri cinesi.
Il tentativo di decifrare quel guazzabuglio bastava ad appannare la vista e a far girare la testa di zio K che, un po’ annoiato, cominciava ad avvertire qualche spasimo di pentimento per avere accettato impulsivamente quel compito formidabile.
«Ehi, ma guarda un po’ se non è il signorino di Koishikawa!» giunse una voce.
«Che cosa starà facendo, mi domando.»
L’uomo che si era appena seduto all’ingresso dell’ufficio con un largo sorriso in volto poteva avere 42 o 43 anni. Lungo e smilzo, vestito in un kimono a righe completato da una giacca egualmente a righe, sembrava il ritratto di un rispettabile mercante. Un po’ scuro di carnagione, aveva una lunga faccia magra decisamente singolare, con un naso prominente e occhi espressivi che gli davano l’aria di un attore di kabuki.
Il suo nome era Hanshichi di Kanda, ed era un investigatore. Aveva una sorella minore che insegnava ballate Tokiwazu e abitava anch’essa nel quartiere di Kanda, poco sotto il santuario di Myōjin. Dato che di tanto in tanto le faceva visita, Zio K era in rapporti amichevoli anche con il fratello. Hanshichi era una figura di grande prestigio nel mondo dei custodi della legge. Una rarità nella sua professione, un onesto figlio di Edo senza pretese, su cui nessuno aveva mai mormorato una parola cattiva. Sempre attento a non abusare della sua autorità per tormentare i deboli dietro lo schermo degli incarichi ufficiali, trattava chiunque con la massima cortesia.
«Siete occupato come sempre, immagino?» domandò Zio K.
«Già. Ho solo fatto un salto per servizio.» Zio K stava scambiando con il detective qualche chiacchiera su quanto accadeva nel mondo, quando ebbe un’idea. Di sicuro non poteva esserci alcun male nel rivelare il segreto di Obata a quell’investigatore, raccontandogli tutta la storia e approfittando della sua saggezza ed esperienza.
«Mi dispiace disturbarvi mentre vi state occupando di un caso, ma c’è una piccola questione su cui vorrei consultarvi…» cominciò, guardando a destra e a sinistra sopra le spalle. Hanshichi annuì gentilmente.
«Be’, non riesco a immaginare di che cosa si tratti, ma perché non ne parliamo? Oh, signora, abbiamo bisogno della vostra stanza di sopra. Nulla in contrario, vero?»
Il detective aprì la strada sulla scala angusta. Il secondo piano consisteva in una stanza delle dimensioni di sei stuoie con una cassa in vimini per gli abiti in un angolo buio e poche altre cose. Zio K seguì Hanshichi all’interno, sedette e gli raccontò la storia dei bizzarri eventi nella dimora di Obata.
«Bene, che cosa ne pensate? Avete idea di come potremmo arrivare al fondo della faccenda? Per come la vedo io, se riuscissimo a scoprire l’identità del fantasma, potremmo tenere un servizio religioso per pregare per la sua anima e forse, allora, tutto si aggiusterebbe.»
«Uhmm, forse...» replicò Hanshichi, scrollando la testa.
Rimase a riflettere per qualche momento. «Ascoltate, signore.Voi pensate che ci sia veramente un fantasma?»
«Be’…» Zio K non sapeva che cosa rispondere. «Io penso di sì. Insomma, non l’ho veramente visto…»
Hanshichi restò di nuovo in silenzio, fumando la sua pipa.
«E così» riprese dopo un poco «sembra che la donna apparsa sia stata una domestica in una casa di samurai, ed è tutta inzuppata, dite? In altre parole, la cosa ricorda molto da vicino quella vecchia storia di spettri su Okiku che venne gettata in un pozzo per avere rotto un piatto del suo padrone, non è vero?»
«Sì, immagino di sì.»
«A casa di Obata, leggono libri di storie popolari?» domandò d’improvviso l’investigatore, con grande sorpresa di K.
«Il padrone di casa non può sopportarle, ma sembra che nei quartieri femminili le leggano. Ho sentito che, di recente, è venuto in casa qualcuno dal Tajimaya, il prestito di libri del quartiere.»
«Qual è il tempio di famiglia degli Obata?»
«Il Jōenji, a Shitaya.»
«Il Jōenji. Uhmm… Davvero?»
«Avete qualche idea?»
«La moglie di Obata è una bella donna?»
«È più attraente della maggior parte delle donne, immagino. E ha appena ventun anni.»
«Capisco. Ora, signore, che ne pensate di quest’idea?» domandò Hanshichi sorridendo. «Non starebbe bene che io ficcassi il naso in una faccenda privata come questa, quindi lasciate tutto quanto a me. Io risolverò il problema per voi in due o tre giorni. Naturalmente, la cosa rimane tra voi e me: io non dirò una parola a nessuno.»
*Okamoto Kido (Tokyo, 1872-1939) considerato il maggior rappresentante del Nuovo Teatro Kabuki, fu il primo drammaturgo a essere ammesso nel 1937 all’Accademia Imperiale delle Arti. La conoscenza della lingua inglese gli permise di leggere "Le avventure di Sherlock Holmes", da cui trasse lo spunto per la figura del detective Hanshichi grazie al quale è oggi riconosciuto come il fondatore del romanzo poliziesco in Giappone. In virtù del successo ottenuto, i suoi racconti gialli (scritti fra il 1917 e il 1937) sono stati adattati per la radio, la televisione, il cinema e tradotti in inglese e cinese. Tuttora vengono di continuo ristampati.