Belka (pp. 448, Sellerio, traduzione di Gianluca Coci, €16, ebook €10,50) è un romanzo polifonico, una cronistoria canina, che mette in discussione l’autorità naturale dell’uomo sul mondo. La storia di una stirpe straordinaria di cani tra Asia e America, intrecciata alle vicende storiche del XX secolo. China Files ve ne regala un estratto, per gentile concessione di Sellerio Editore. Si vede lontano un miglio che siete russi, pensava la ragazzina guardandoli. Sareste pronti a divorare qualunque cosa, miserabili cani russi! Troppo bianco era il loro respiro nel gelo. Troppo bianca la loro bava. «Bastardi! Anche il bianco è più freddo del solito, qui». Eppure la ragazzina non riusciva a staccare gli occhi da quello spettacolo, immobile dietro la finestra. Continuava a inveire in silenzio, accanitamente, ripetutamente. Tanto sapeva che, come ostaggio, non aveva molto altro da fare.
Osservava i cani. Guardava la scena del loro pasto. Dopo di che si preparava a contemplare il loro addestramento nel campo là davanti. Le grandi esercitazioni dei cani. Le grandi manovre dei cani. Duravano due ore buone, sessione pomeridiana a parte. Quei cani venivano addestrati e allenati a puntino. Ce n’erano di tutti i tipi. Sia di esercizi, sia di cani. Dobermann, pastori tedeschi… Tutti gli altri la ragazzina non era in grado di riconoscerli, quelle erano le sole due razze che riusciva a distinguere. Nella stragrande maggioranza dei casi, si trattava di cani occidentali che non aveva mai visto in vita sua.
Avevano forme e proporzioni insolite. Taglia media, orecchie dritte, pelo relativamente lungo, zampe posteriori potenti. Colori diversi, ma abbastanza omogenei. Una decina, o anche una ventina di quei cani condividevano forse lo stesso sangue. Il sangue? Sì, una decina o anche una ventina di quei cani possedevano la stessa aura, lo stesso contegno nobile e altero. «Dovete valere un mucchio di soldi» mormorava tra sé e sé la ragazzina, lo sguardo fisso su di loro. «Scommetto che discendete da una grande stirpe».
I cani abbaiavano, l’allenamento cominciava. Correvano in gruppo da una parte all’altra del campo, e la ragazzina non smetteva mai di guardarli, senza spostarsi di un solo centimetro. Nello spazio tra i cani in perenne movimento e la ragazzina immobile, suppergiù a metà strada, c’erano due uomini. Al gelo, al pari dei cani, sfidavano anche loro i venti gradi sotto zero. Nel campo di addestramento, conducevano la grande esercitazione. Impartivano ordini senza sosta, gridando a pieni polmoni.
Il vecchio era uno dei due, lui era il capo. Lui era quello che dava ai cani la maggior parte delle indicazioni. Insegnava loro le tecniche di attacco. Quegli animali erano dotati di una velocità impressionante. A un suo segnale, si mettevano a correre a sessanta o settanta chilometri all’ora. Si lanciavano con tutte le loro forze contro l’obiettivo e lo spingevano a terra. L’obiettivo era l’altro uomo, il calvo, quello che aveva l’aria di essere il figlio della vecchia delle cucine. Solo che in quel momento non gli si vedeva la faccia, nascosta, come il resto del corpo, da una protezione speciale. Il collo, in particolare, era coperto da un’imbottitura di notevole spessore.
Perché era quello il bersaglio preferito dei cani, la gola. Spiccavano il balzo, lo azzannavano alla gola, stringevano forte, tiravano e lo spingevano a terra. Di solito, i cani poliziotto e i cani soldato sono abituati ad afferrare il polso, in modo da disarmare l’avversario. Pertanto si insegna loro a mirare al braccio, o tutt’al più al tronco. Ma il metodo del vecchio era diverso. Il fine ultimo dei suoi insegnamenti non consisteva semplicemente nel disarmare l’avversario, bensì nell’ammazzarlo.
Attacco al volto, presa alla gola e sgozzamento. Una tecnica letale, pura, precisa, istantanea. Il cane più veloce si scagliava contro l’obiettivo con una furia tale da fargli fare una capriola a mezz’aria e mandarlo dritto al suolo. Dopo di che gli afferrava la gola e mordeva così forte che, se non fosse stato per la protezione, gli avrebbe staccato la testa nel giro di pochi secondi.
Fin qui, si era ancora nella fase di riscaldamento. I cani venivano poi divisi in coppie, in “formazione d’attacco contro un obiettivo umano”. Il primo cane mirava alle cosce e impediva al bersaglio di fuggire, il secondo assestava il colpo di grazia. I ruoli erano assegnati in funzione del carattere di ciascun cane, e le coppie venivano cambiate di volta in volta. A con B. C con D. E con F. C con B. A con F. A seguire, da soli o di nuovo in coppia, dovevano svolgere un esercizio di maggiore difficoltà: “recupero arma avversario”.
Avvezzi all’odore della polvere da sparo, disarmavano il nemico azzannandogli il polso, recuperavano l’arma e la portavano di corsa al padrone, stringendola tra le fauci. Il loro istinto li induceva a scagliarsi contro l’obiettivo in linea retta (ovvero sfruttando la via più breve). Il che era perfetto per un “attacco frontale ortodosso”. Perché nessun uomo, vedendosi venire contro un cane di taglia media a sessanta o settanta chilometri all’ora, sarebbe capace di reagire con freddezza, prendere la mira e sparare con precisione. In più, non contento, il vecchio insegnava ai suoi cani a disobbedire all’istinto. A un suo segnale, smettevano di avanzare in linea retta e cominciavano a procedere a zig-zag, prima lateralmente, poi in diagonale verso l’obiettivo. In questo modo, nel caso l’avversario avesse esploso una raffica di mitra, loro sarebbero stati in grado di attaccare seguendo una linea irregolare (“attacco serpeggiante eterodosso”).
Tuttavia insegnare ai cani ad aggredire un bersaglio singolo rientrava nelle nozioni elementari. Difatti, a quel punto, si era solo nella seconda fase del riscaldamento. Dopo una prima mezz’ora di esercizi dedicata alle tecniche di attacco di base, il vecchio passava alle cose serie. In altre parole si procedeva all’addestramento militare vero e proprio. Indicava a una squadra di dieci cani un edificio deserto di quattro piani, uno dei tanti sparsi qua e là nella “città della morte”, e dava ordine di fare irruzione. I cani si sparpagliavano in tutte le direzioni e si esercitavano all’assalto combinato.
Imparavano a superare scale, porte e finestre, a entrare e uscire con celerità da un ambiente, a comunicare tra loro abbaiando. Al pari di tre o quattro cani da pastore alla guida di decine e decine di pecore, si disponevano in formazione e perlustravano l’intero edificio in un tempo prefissato. Seguivano gli esercizi di salto. I cani venivano schierati in fila sulla strada principale della “città della morte”, in posizione di attesa. Dalla direzione opposta sopraggiungeva un veicolo e loro dovevano evitarlo saltando al di sopra. Oppure dovevano schivarlo spostandosi da un lato. O ancora dovevano costringerlo a rallentare e saltare sul cofano, allo scopo di ostruire la visuale e provocare un incidente.
Tecniche di sommossa urbana. Guerriglia urbana. Ecco ciò che i cani apprendevano nella “città della morte”. A poco a poco, gradualmente. Via via che il vecchio li addestrava, sembrava quasi che il loro livello intellettivo aumentasse. A poco a poco, gradualmente, prendevano coscienza della loro specializzazione estrema. Se vedevano una scala appoggiata contro il muro esterno di un edificio, vi si arrampicavano senza esitazione. Allo stesso modo, avevano imparato a salire sugli alberi. Nascosti nel fogliame, restavano in agguato, trattenendo il respiro, pronti ad assalire chiunque vedessero passare.
Quella mattina, in particolare, si stavano esercitando a trasportare un ramo in fiamme stringendolo tra le fauci. Era già una settimana che si insisteva su quel tipo di esercizio, nell’ambito del programma dedicato alle tecniche incendiarie. Fondamentalmente il vecchio inculcava nei suoi animali il concetto di distruzione. Tutt’a un tratto, gli oltre venti cani presenti si fermarono simultaneamente. Volti nella medesima direzione, presero ad abbaiare. All’erta! Un intruso si avvicinava al terreno di allenamento.
«Zitti!» ordinò il vecchio. «Che nessuno si muova!». Ma qualcuno dei cani continuava a ululare come un lupo. «Asija, basta! Putaška, basta! Ponka, basta!». Non appena il vecchio ebbe pronunciato il loro nome, i cani in questione si zittirono all’istante. Ah, ce n’era ancora uno. «Aldebaran!». E fece silenzio anche l’ultimo cane.
In fondo, là dove i cani tenevano puntato lo sguardo, c’era l’intruso: la ragazzina, avvolta nel suo cappotto. Avanzava a piccoli passi, a circa sette o otto metri dal campo di allenamento. «E questi sarebbero nomi di cani?» chiese urlando, in giapponese. «Non potevi chiamarli Pucci, Pippo o come tutti gli altri cani di questo mondo?».
*Furukawa Hideo (1966) ha esordito scrivendo per il teatro. Nel 2002, con Arabia no yoru no shuzoku (Le tribù delle notti arabe) ha ricevuto il Mystery Writers of Japan Award e il Japan SF Grand Prize. Grazie al premio Mishima, ottenuto nel 2006 per il romanzo LOVE, si è imposto come uno dei massimi scrittori dell’ultimo decennio.